Crisi dei populismi e crollo di un modello.

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La recente crisi di governo ha decretato il fallimento di una politica fatta di continui proclami, come se si fosse in una perenne campagna elettorale, in grado di parlare alla pancia ma non alla testa degli italiani. La maggioranza di governo che si è appena dissolta sotto il cocente sole d’agosto era nata da un accordo postelettorale tra due coalizioni diverse che, coraggiosamente, avevano deciso di stilare un programma di punti in comune e governare. Da quell’esperienza, a nostro avviso, non tutto è da buttare. Alcuni provvedimenti o progetti sono assolutamente in linea con una politica a favore dei più deboli e delle fasce più indifese, abbondonate da una pseudo sinistra, che ha molto predicato e poco agito in questa direzione. Tra le due componenti di governo c’erano interessi per nulla coincidenti e l’uno è cresciuto elettoralmente ai danni dell’altro, che ha avuto il coraggio delle scelte più importanti. Se dovessimo identificare i provvedimenti a sicura impronta leghista, troveremmo il decreto sicurezza e la politica di chiusura dei porti, null’altro. Sui migranti nessuno ha avuto il coraggio di dire al senatore Salvini come stanno realmente le cose, ossia che la riduzione degli sbarchi è legata a una discutibile politica perseguita in precedenza dal PD, che tendeva a bloccare i migranti nei lager libici, grazie ad accordi con i luogotenenti locali.

E’ apparso via via chiaro che le due forze non avrebbero potuto coesistere a lungo. Tuttavia, in pochi avrebbero scommesso sui tempi, assolutamente sbagliati. L’euforia dei recenti consensi elettorali ha spinto la Lega a rompere la coalizione, nella convinzione di capitalizzare in fretta un consenso che appare in crescita.  Salvini non ha tenuto colpevolmente conto della scarsa propensione dei deputati del PD a tornare al voto di fronte all’incertezza di non essere riconfermati. Su questo ha fatto leva Matteo Renzi, che ha agito come f.f. del Segretario, anticipando delle intenzioni diametralmente opposte a quanto dichiarato da Zingaretti.

In tutto questo marasma è apparsa titanica la figura del Presidente Conte, che con un gesto di alta dignità istituzionale, ha tenuto testa e ha preteso che la crisi si svolgesse alla luce del sole, in Parlamento.

L’interruzione dell’esperienza di governo giallo-verde è stata intempestiva e avvenuta per mero calcolo da parte della Lega, in barba all’interesse generale. Il tentativo di marcia indietro in extremis del ministro Salvini è indice di un ripensamento tardivo e poco credibile.

A questo punto appare ancora più assurda la gestione dei passaggi successivi all’apertura della crisi da parte della Lega, dalla pretesa di votare a ottobre, ignorando prerogative che non appartengono affatto al ministro dell’Interno, alla richiesta di  “pieni poteri”, che ha finito per determinare un contraccolpo importante.

La Lega non può appellarsi alla piazza per il fatto che si profili una nuova maggioranza, tanto meno invocare ribaltoni, visto che la maggioranza dissolta non si era presentata come tale agli elettori. Nulla di strano, dunque, se in Parlamento si costituisse una nuova coalizione. Fermo restando la nostra convinzione sui reali interessi del PD per evitare le urne, riteniamo che un governo di scopo con l’articolazione di alcuni punti chiari, coincidenti, possa rappresentare un’opzione assolutamente accettabile e, al contempo,  dare una lezione di stile e di politica a chi agisce per mero calcolo elettorale.

L’alternativa a questo tentativo sarebbero le urne, che quasi certamente decreterebbero la vittoria della Lega e il ritorno in poma magna dei populismi, che abbiamo sempre ritenuto – e continueremo a ritenere – un rimedio assai peggiore del male che si propongono di combattere.

Reputiamo, oltretutto, un’eventuale alleanza giallo-rossa molto più naturale e fisiologica di quella già sperimentata, giallo-verde. A due condizioni: la prima è che il PD si riappropri di un’identità di sinistra, condividendo alcune battaglie dei pentastellati, la seconda è che il partito di Grillo rinunci al linguaggio della piazza, riappropriandosi di una dimensione istituzionale che fino ad oggi ha difettato.

Massimo Conocchia

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