La tarantella ballo nazionale del regno di Napoli

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Come preannunciato riportiamo sulla tarantella quanto apparso su un giornale milanese del 1869.

Va fatta qualche precisazione, per rendere comprensibili i richiami che vi si fanno.

Il “neonato principe di Napoli” era il futuro Vittorio Emanuele III di Savoia, nato nella detta città l’11 novembre 1869.

Le feste, alle quali si fa riferimento furono esaltate da varie testate dell’epoca.

Una di queste riporta che “fu scritta per l’occasione, una canzone in dialetto, dal titolo: L’asciuta a lu munno de Vittorio Manuello, Principe de Napoli. Ne furono autori Marco D’Arienzo e Antonio Castelmezzano, su musica del maestro Scalisi”. Si apprende che “Venne cantata dal tenore Alessandro Rocco, e dovette essere ripetuta nientedimeno che settantacinque volte”.

Lasciamo le feste e occupiamoci della tarantella, che sbalordì quanti non conoscevano né il Meridione, né il suo popolo. Cediamo al giornalista dell’epoca:

“E certo una delle cose, che i venti e più mila forestieri accorsi alle feste in onore del neonato principe di Napoli, si saranno recati a vedere o a rivedere sulla riva di S. Lucia, fu la famosa tarantella, ballo nazionale, praticato molto anche in Roma nei quartieri popolani dei Monti e di Trastevere.

È questa una danza caratteristica e grottesca da paragonarsi alla spigliatezza e all’originalità delle danze spagnuole. I lazzaroni di Napoli ci provano un gran gusto e le coppie d’innamorati la ballano con un brio e con un entusiasmo veramente incantevole.

Gl’innovatori campioni della moda tentarono più volte d’introdurla nei balli di società, ma non vi riuscirono mai. Portata sui morbidi tappeti delle eleganti e profumate sale del gran mondo, e danzata da quelle sdegnose figure tutte d’un pezzo ravvolte in ricchi abiti di stoffa con tanto di coda, la povera tarantella pareva un fiore trapiantato sott’altro clima e perdeva tutte le grazie che la rendono così gaja e così dilettevole. Ci vuole per essa il franco marinajo e la vispa popolana, non la dama attillata ed il cavaliere stecchito. Si contentino essi delle calme quadriglie e dei pacifici lancieri: nel vortice turbinoso della tarantella si corre rischio di sciupare il vestito e di perdere lo chignon”.

A parte tutto il resto la stoccata finale fa capire che l’imitazione di dame e cavalieri impettiti era una bruttissima copia della tarantella. Non mancava solo quanto evidenziato dal giornalista, mancava sì il brio, ma mancava, soprattutto l’anima.

Proprio così, come si è messo in evidenza la volta scorsa la tarantella era nell’intimo e, quando la coppia era quella degli innamorati le vibrazioni del corpo lo dimostravano tutto.

Giustamente questo ballo tipico è stato definito ballo nazionale, ma di una nazione che non esisteva più.

Noi abbiamo visto i giovani acritani lanciarsi in questo ballo, che il coreografo popolare aveva arricchito di una terza figura, che si diceva passàva de ‘mmìenzu (passava in mezzo alla coppia). Sembrava ai più un qualcosa di normale, ma se ne ignorava il significato. La terza persona rappresentava il terzo o la terza incomoda che si frapponeva e cercava di insidiare la coppia. Altro che passare di mezzo il significato era ben chiaro, anche se ai pochi.

Viene da chiedersi il maestro di ballo, nell’introdurre questa figura lo faceva con malizia, sapendo qualcosa o lo faceva ingenuamente?

Fate voi. Io non dico la mia.

Giuseppe Abbruzzo

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