Restare o ritornare? Meglio essere”

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Un cartellone del paesologo Franco Arminio, cittadino onorario di Acri, sembra aver suscitato un’ondata di vibrante attenzione sul tema del restare e ritornare al Sud. L’interesse appare positivo, perché su questioni così fondamentali per la formazione della coscienza critica individuale e collettiva, è meglio discutere che restare inerti.

Personalmente, mi è venuto in mente un articolo di Gaetano Salvemini, insigne storico ed acuto meridionalista, apparso su “La Voce il 3 gennaio 1909”, dal titolo “Cocò all’Università di Napoli o la scuola della malavita”.

Lo scritto traccia una lucida e severa analisi del fenomeno della migrazione intellettuale borghese all’inizio del secolo scorso, laddove viene tratteggiato il percorso dell’abbandono della propria famiglia di un liceale di una “cittadina qualsiasi del Napoletano”, per addottorarsi all’Università di Napoli.

Il giovane, dotato di una perfetta e solida coscienza morale d’origine, giunge a Napoli, definita la piaga del Mezzogiorno, così come Roma dell’Italia, ed “avido di bere a grandi sorsi alla coppa della libertà”, viene in contatto con un mondo caratterizzato da corruttele, furberie, soprusi di ogni genere, che inquinano, rendendolo futuro complice di un sistema decadente, quell’uomo dotato di un’intuizione rapidissima, di un forte amor proprio, di una facile adattabilità all’ambiente.

Cocò, quindi, ricordandosi rare volte di essere uno studente universitario, si forma alla scuola della malavita che lo configurerà, con utile efficacia, al mestiere del corrotto corruttore.

Cocò diventa, pertanto, un laureato analfabeta che, incapace di affrontare, in quanto inetto, un mondo che premia e promuove le capacità concorrenziali, ritorna alla casa paterna, laddove lo attendono una madre invecchiata e le sorelle avvizzite dai sacrifici per far studiare il giovane già di belle speranze.

Così il giovane, impossibilitato ad un utile collocazione vista la carenza di ogni abilità tecnica, trova una soluzione rapida e sicura alle proprie esigenze di reddito, anche minimo: un impiego municipale.

Ed allora, Cocò si trasforma, per convenienza, in quello che prima idealmente osteggiava: da fiero anticlericale si iscrive ad una Confraternita e tiene il baldacchino dietro al Vescovo nelle processioni; da ex socialista rivoluzionario si modifica in un giocatore a terziglio col delegato, col maresciallo dei carabinieri; da convinto sostenitore di Giovanni Bovio diventa falsificatore delle bollette del dazio consumo e ladro dei denari della beneficenza.

In buona sostanza, la condizione di bisogno dello “spostato”, definito dal Salvemini come il “proletario dell’intelligenza” diventata azione politica, e siccome “le idee non girano per le strade sulle proprie gambe, ma si incarnano in uomini, si ha che le più belle idee, i più bei programmi di questo mondo, quanto cadono nelle mani di quei miserabili, si riducono a pretesto per conquistare impiego… E partiti vanno in rovina…”.

Gli effetti, secondo il Nostro, sono che: “….la corruzione della borghesia meridionale arriva a Roma e da Roma impesta tutta l’Italia”.

La questione meridionale, nella sua essenza storica, diventa quindi una questione etico politica che investe le stesse fondamenta morale della società nazionale e dello Stato Unitario.

Veniamo ad oggi.

È evidente come il declino politico-istituzionale ed economico-sociale, trasposto in una decadenza morale del Mezzogiorno, sia stata la causa dell’incessante ed inarrestabile fenomeno di migrazione dal Sud, laddove centinaia di migliaia di giovani e meno giovani, sono stati costretti ad abbandonare le loro terre in cerca di un futuro migliore.

Qualcuno per vitali necessità, altri per non piegarsi al giogo di un ricatto di favori, altri ancora per garantirsi quella crescita professionale, sociale ed economica a cui il triste destino li avrebbe forse condannati a non avere.

Quelli rimasti, invece, hanno mostrato tutto il loro coraggio e la forza di resistere ad un mare in burrasca, mare che comunque li ha sistematicamente sbattuti contro un muro perenne di malcostume, di omertà, di clientelismo, che in sostanza li ha condannati a vivere in una condizione materiale e spirituale non consona alla loro onestà, alla loro etica, alle loro capacità.

Essi stessi, in definitiva, sono diventati vittime inconsapevoli ed incolpevoli di un meccanismo subdolo quanto ingannevole.

I Cocò, oggi, non esistono più, ma esistono imprenditori, artigiani, lavoratori di ogni genere, artisti, professionisti che, sottratti dalle loro terre da un diverso bisogno, vivono in un perenne conflitto interiore rappresentato dal desiderio di tornare alle loro origini per riscattare quel mondo a cui una sorte crudele li ha sottratti.

Esistono, inoltre, i “cittadini rimasti” i quali, dotati, non di meno, di ingegno, capacità, volontà ed arguzia, presentano un’energia tale da garantire uno slancio vitale per un percorso di rigenerazione necessitato dai tempi.

E in questo contesto generale, pertanto, che si dovrebbe avere la forza ed il coraggio di innescare un “processo di rivitalizzazione circolare”, fatto da un’unione solidale tra chi è partito e chi è rimasto.

La questione da affrontare e risolvere, infatti, è che non vi è diversità alcuna tra chi è rimasto, chi è partito, chi ritorna, perché questi sono tutti tempi di verbi che indicano fenomeni di spazio, di durata, di luogo, di movimento, verbi che non svolgono, di fatto, alcuna funzione di sostanza.

Alla radice del fenomeno, invece, vi è, in quanto sostanziale, il verbo “essere”, perché esso rappresenta un’immagine di riconoscimento identitario rappresentato da una comune appartenenza ad un sistema di valori, di cultura, di storia.

Si scorgono, però, ostacoli che sembrano solo all’apparenza insormontabili.

Il sistema mostra, metodicamente, di volere respingere chi vuole tornare, perchè vede in quelle figure un pericolo, inesistente, allo status quo.

In misura maggiore, però, agisce il “nemo propheta in patria” (cfr Vangeli, Luca 4, 24; Matteo 13, 57, Marco 6, 4, Giovanni 4, 44), difetto primordiale dei rapporti umani, che sembra creare una barriera invincibile per una proficua cooperazione per il riscatto e per lo sviluppo.

Questo vizio, d’altronde, immagino inconsapevolmente, viene alimentato, a volte, da atteggiamenti di involontaria preminenza di chi dall’esterno cerca di apportare un proprio contributo ai luoghi originari.

Si tratta, ovviamente, di un equivoco di fondo che però dovrebbe far riflettere sulla cautela del come atteggiarsi nelle relazioni collettive ed individuali.

Occorre quindi, con enorme sforzo e responsabilità, saldare le realtà che solo in apparenza si presentano difformi e superare quel vulnus atavico.

Forse un impegno sul bene comune, sorretto da virtù quali rispetto, umiltà, cooperazione, riconoscimento reciproco di tutte le multiformi potenzialità servibili, per la realizzazione di progetti concreti, di valore, misurabili, potrebbe essere la soluzione al dilemma. Potrebbe.

Angelo Montalto

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