Aziz

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Aziz  

È una domenica di fine inverno a Lagarò, il piccolo villaggio all’interno della Sila Grande.

Sulla strada provinciale 206 circolano i fratelli Molinari in mountain bike, e la bella e riccioluta Eleonora, neopatentata alla guida di una Toyota Aygo grigio metallizzata, con la radio sintonizzata su Radio Acheruntia che sta trasmettendo un vecchio successo di Drupi Sereno e.

All’altezza del supermercato Crai, in mezzo a due filari di meli in boccio, procede, non troppo spedito, Franco, a bordo della sua Golf 6 bianca, piena di articoli di giornali, di libri, di carte dell’IGM relative alle zone di Segheria del Cupone, Case Zagaria, Malarotta, Serra della Giumenta, quest’ultime molto usurate e perciò incollate con un paio di giri di scotch.

Sta andando a fare ricerche archeologiche sulla sponda meridionale del Lago Mucone, dove nel 2017, in seguito ad una straordinaria siccità e al conseguente ritiro delle acque lacustri, furono rinvenuti i resti fossili di un Elephas antiquus.

Ha l’aria allegra, gli piace stare sulla strada, gli dona una sensazione di libertà.

Ci sono dodici gradi e soffia vento da Sud-Est.

La primavera in anticipo rallegra la vallata con i suoi zafferani, nontiscordardime e ciclamini.

Le acque del lago scintillano e a momenti accecano per il magnifico fulgore del sole. Di tanto in tanto dal canneto uno stormo di germani disturba la loro quiete, remigando lenti lenti a fior d’acqua prima di levarsi in volo.

A pochi chilometri dal ponte sorge, isolata dalle altre, la casa di Gina e Aziz, circondata da un boschetto di salici e pini, oltre il quale si allarga il campo di oltre dodici ettari, destinato all’aratura per la coltivazione delle patate: le varietà Agria, Desirèe, Ditta.

La casa, del primo Novecento, non è né bella né brutta ma enorme, con un’architettura antica su due piani e una scala esterna in cemento con gradini molto alti e sdrucciolevoli sui quali verdeggia qua e là il muschio. Sei stanze a piano, dodici finestre azzurrine senza tende.

Il giardino è un po’ inselvatichito e i quattro vialetti che conducevano ad una croce centrale all’interno della quale era stata innalzata una statuetta di San Francesco di Paola, paese di origine della vecchia proprietaria Aurelia, sono oramai scomparsi sotto l’erba. Aurelia Cassano, vedova dell’ultimo erede De Stefano, non avrebbe tollerato le zolle d’erba in mezzo alle aiuole, un tempo rosseggianti di tulipani e dalie. Alta e robusta com’era, dedicava diverse ore della sua giornata al giardino e chi passava dalla strada non poteva non notare la sua bella figura in movimento, con le cesoie in mani nell’atto di potare le rose o col barattolo di latta per raccogliere le lumache. Del suo vecchio giardino sopravvivono solo le siepi di lavanda e rosmarino, nonché le dalie che piacciono molto anche alla nuova proprietaria, la tracagnotta ma assai dolce Gina, sposata con Aziz, originario del Pakistan.

I panni stesi svolazzano arrotolandosi su sé stessi. Le mollette di plastica colorate trattengono i panni di due adulti e di una bambina: tute da lavoro, calzoni pesanti e maglioni da uomo perlopiù fatti a mano, taglia 54, vestiti semplici da donna taglia 46, due reggiseni bianchi in pizzo quinta misura, una sfilza di calze, calzettoni, gambaletti, e varie tutine fra le quali spicca quella di Minnie e un pigiamino felpato bianco con la scritta “Baby 50% mamma, 50% papà.”

Un pastore maremmano guaisce pigramente col muso nell’erba ai piedi del padrone Aziz.

Aziz come ogni domenica è seduto, serio e pensieroso, sulla sua panchetta di legno sotto al ciliegio, con le spalle alla casa e lo sguardo fisso al lago. Calzoni militari, camicia azzurra perfettamente stirata sotto il maglione blu a coste inglesi. Niente giacca, non soffre il freddo. Gli occhi lucidi di chi fa di tutto per trattenere le lacrime.

Sono passati quasi vent’anni da quando è scappato dal Pakistan, in seguito all’uccisione dei suoi genitori, da parte di alcuni rappresentanti della fazione religiosa Wahhabi, ma la percezione del tempo è rimasta immutata, è ancora ieri, è successo proprio ieri.

Una sofferenza inesprimibile, straziante, senza sollievo, mai passata, col tempo si è solo cristallizzata, tanto è vero che quando lavora o corre troppo, teme possa fargli scoppiare il cuore.

Vorrebbe solo non ricordare, vorrebbe solo vivere in pace.

Affranto si porta la mano al petto come per proteggersi, una smorfia di angoscia gli contrae i muscoli del viso, ha la bocca asciutta, gli manca l’aria, come quando fu caricato nel bagagliaio dell’auto che dal confine del Pakistan lo portò a Teheran, come quando si nascose nel container che da Patrasso lo condusse a Bari, come quando vide i corpi dei genitori nei pressi della moschea.

Gli gira la testa, il paesaggio ondeggia, le case della sponda opposta del lago tremano, chiude gli occhi e rivede sua madre che visita i bambini, che cucina il biryani, che gli accarezza i capelli.

Riapre gli occhi, neri e bellissimi, il paesaggio si è raddrizzato, le vertigini per fortuna lo stanno abbandonando.

Si chiede quale sarebbe stata la sua vita se i genitori non fossero morti, se avesse continuato gli studi in Medicina per fare anche lui il pediatra come sua madre, chissà …forse non avrebbe mai creato una famiglia, che ora in questa nuova vita, da sradicato, senza una vera identità, è per lui fonte di grande energia, forza e fede.

In fondo gli piace la Sila, adora la pasta al forno con la soppressata e le uova lesse, la pizza di patate. Le patate del suo campo.

Vede passare due ciclisti, li saluta. Saluta tutti quelli che passano sulla strada, ha un carattere bonario, non alza mai la voce con nessuno.

Si alza per rientrare, accarezza il cane, quando vede sua figlia corrergli incontro, gioiosa e bella.

Bella come sua madre.

“Amina, non correre, non correre, vai piano”.

“Papà la capra è cotta, dobbiamo mangiare.”

Aziz solleva teneramente la piccina fra le braccia e la bacia sulla fronte.

Aurora Luzzi

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