Lectura Dantis e Salvatore Scervini

Tempo fa abbiamo dato vita a una particolare Lectura Dantis, trasmessa da emittenti televisive, fra le quali RVF.

Presentavamo le traduzioni di canti della Divina Commedia in dialetto calabrese a opera di Salvatore Scervini, Vincenzo Gallo, Eugenio Maria Gallo.

Non si trattava di sola lettura, ma di puntualizzazioni sulle dette traduzioni e sull’abilità dei traduttori.

In particolare facevamo notare come le traduzioni non fossero pura e semplice trascrizione in dialetto del poema dantesco. I traduttori rivelano, a parer nostro, abilità e padronanza non comune della cultura e del dialetto. Per intenderci Scervini, grande possessore di quanto suddetto, oltre alla musicalità del verso, è abilissimo nel trasferirsi nell’intimo di Dante e interpretarne sentimenti vari e diversi e quanto può suscitare nell’animo del visitatore dei tre regni e degli incontri con personaggi presentati con rara perizia e balzanti da situazioni e condizioni ben note.

Quanto questo sia vero lo Scervini tiene a trasmettercelo nel Prologo:

Iu ppe’ tradurri Danti ‘ncalabrisu

mi dissiccai quattr’anni lu ‘ntellìettu;

e prima intra li ‘Mpìernu sugnu scisu,

tremannu de pagura e de suspiettu.

Restai de petra; ‘un ci trvai ‘nu risu,

una sula speranza de rigiettu:

cumu chill’arma de chi scrissi affisu

de sdegnu, de minnitta, de suspiettu.

Jivi allu Prigatòriu: lu trovai

cumu lu nostru munnu: ugne doluru

ha ‘nu difrìscu, speranza li guai.

Ma l’uocchi mi affuscau tantu sbriannuru

quannu allu Paravisu m’accostai

chi vidari ‘un potivi lu Signuru.

Come avevamo precisato, lo Scervini si dissìcca il cervello per tradurre Dante. Attenzione, perché il Nostro non usa termini a caso: anzitutto si arrovella il cervello fino a rinsecchirselo nell’esecuzione di tanto immane lavoro; ancora non traduce la Divina commedia, ma Dante, ossia quanto il Poeta provò nel compiere il suo viaggio.

Così, incarnatosi in Dante, Salvatore Scervini ci comunica i sentimenti, le sensazioni, ecc. che lui prova. Resta impietrito nell’Inferno, che percorre fra paure e sospetto, perché non vi si coglie un sorriso, perché le anime non hanno speranza di avere un minimo di pace.

Soffre e prova, lo ribadisce, quanto provò il Sommo Vate “affisu / de sdegnu, de minnitta, de suspiettu”.

Il Purgatorio, ci comunica il Nostro, è stato da lui trovato come il nostro mondo, dove ogni dolore ha un ristoro e ogni guaio ha la speranza d’essere risolto.

Infine il suo occhio, come quello di Dante, non riesce a sopportare la luce emanata dalla presenza Divina, tanto da non poter vedere il Signore.

Tutto questo deve tenere presente chi si accosta a quella traduzione e coglierne le espressioni tipiche e i vocaboli, tanti dei quali ormai scomparsi. Tanto, d’altra parte è stato egregiamente evidenziato dall’amico e Maestro prof. Antonio Piromalli, prezioso collaboratore del nostro “Confronto”: “Abbiamo con quest’opera un serbatoio linguistico del bel dialetto del cosentino della seconda metà del secolo scorso, arguto, civile, che rispecchia una società di rara costumanza; tale serbatoio è più prezioso di quello di un vocabolario perché il traduttore lo estrae dall’uso parlato, lo modella dalle radici della colta e umana Acri post-risorgimentale”.

Giuseppe Abbruzzo

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