E se Kahlil Gibran avesse risposto alle mie domande?

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Tu presti fede a quel che senti dire. Ma dovresti credere a quanto non viene detto: il silenzio dell’uomo si accosta alla verità più della sua parola.

Se non comprendi il tuo amico in ogni situazione non lo comprenderai mai. La realtà dell’altra persona non è in ciò che ti rivela, ma in ciò che non può rivelarti. Perciò, se vuoi capirla, non ascoltare ciò che dice, ma ciò che non dice.

Tra le mie letture preferite, ci sono le raccolte, le poesie, i racconti di Khalil Gibran, poeta mistico di origine libanese. Egli viene spesso identificato con il suo libro più famoso Il Profeta, ma esiste un ricco panorama di scritti non meno significativi.

Ho letto più volte il suo libro perché da esso molte persone come me possono trarre spunti di riflessione sulla vita. La lettura delle sue opere mi ha così tanto coinvolta che ho spesso immaginato Gibran che mi concede un’intervista.

L’incontro va più o meno così. Arrivo in Libano dopo qualche ora di aereo. Gibran mi ha dato appuntamento alla foresta dei cedri di Dio: è Patrimonio universale dell’Unesco. Non mi sorprendo, perché so che ama la natura e il clima del suo paese natale.

Lo vedo in lontananza e lo riconosco immediatamente dalla fronte alta e dai baffi ben curati. Alto e distinto, mi saluta e mi guarda con occhi penetranti. Mi invita ad andare direttamente al punto. Non me lo faccio ripetere due volte e gli domando:

“ci può raccontare, per sommi capi, la storia della sua vita?”

Lui sospira e comincia a raccontare:

 “Sono nato in Libano il 6 gennaio del 1883. Mia madre aveva trent’anni quando sono nato e mi ha avuto con il suo terzo marito. Era un uomo irresponsabile che portò la famiglia verso la povertà. Io crebbi con un fratellastro più grande e due sorelle minori, alle quali fui molto legato. Kamila aveva un carattere molto forte. Fu solo grazie a esso che riuscì a raggiungere un fratello emigrato negli Stati Uniti, e a crescere lì la sua numerosa famiglia. Lavorava come merciaia ambulante a Boston.”

“Come trascorreva le giornate durante la sua infanzia?”

“Avevo un carattere solitario. Ero attratto dalla bellezza della natura piuttosto che dalle compagnie rumorose. Amavo le cascate d’acqua, le rocce, i cedri verdi. “

“E a scuola incontrò nuovi amici?”

“Ero povero. Non potei frequentare regolarmente la scuola, ma ebbi la fortuna di conoscere un sacerdote. Mi insegnò la cultura religiosa e la Bibbia, oltre che a leggere e a scrivere. Mio padre, semi-alcoolizzato, era rimasto in Libano. Mia madre mi consigliò di ritornare da lui”

“E come fu la convivenza con suo padre?”

“La vita con mio padre era insostenibile, tanto che decisi di ritornare in America. Terminai gli studi, ma in quello stesso anno dovetti affrontare molti eventi dolorosi. La morte di una sorella Sultana, del fratello e della madre.

“Incontrò qualche ragazza?”

“Josephine fu la mia prima conquista. Ci rendeva simili l’indipendenza e la fierezza di carattere. La passione fra noi tuttavia svanì ben presto e conobbi Mary Elizabeth. Mi innamorai di lei perdutamente. Questo fu l’incontro più importante della mia vita. Mary apprezzava moltissimo le mie capacità. Mary aveva 10 anni più di me ed era preside di una scuola femminile. Grazie a lei, a 25 anni, mi sono trasferito a Parigi per studiare all’Accademia di Belle Arti. Diventai allievo dello scultore Auguste Rodin. Dopo qualche anno tornai negli Stati Uniti. Nel 1911, andai a vivere a New York, dove cominciai ad essere conosciuto come pittore.”

“E il suo primo libro?”

“A 28 anni pubblicai il mio primo libro in inglese, ‘Il Folle’. Vissi tra gli artisti del Greenwich Village. Intanto, alla mia fortuna di pittore si unì il successo come poeta e scrittore “visionario”. Nel 1923 uscì, in inglese, il libro ‘Il Profeta’, che ebbe però un successo piuttosto modesto.”

“Poi cosa successe?”

“Gli ultimi anni della mia vita furono estremamente attivi in campo letterario, ma difficili per problemi di salute. A 46 anni si manifestarono infatti i primi sintomi della cirrosi epatica e della tubercolosi”.

“Consapevole della sua morte, quale fu il suo ultimo desiderio?”

“Quello di essere sepolto in Libano, la mia salma fu subito trasportata nel paese dei cedri, con grandi onori.”

Intanto il tempo passa e comincia a fare caldo. Gibran intuisce la mia stanchezza e mi propone di fare una pausa offrendomi un bicchiere di Arak, la bevanda nazionale del Libano, un liquore all’anice. In realtà, mi dice, l’Arak è un sottoprodotto del vino, in quanto si ottiene distillando i semi dell’uva rossa e i residui della spremitura delle bucce. Sono tante le cose che vorrei chiedere ma devo necessariamente concentrarmi su quelle più sentite, in particolare sul sentimento universale.

“Cosa ci può dire dell’amore?”

Gibran rimane un attimo in silenzio, sorride.

“L’amore è un atto di fiducia e libertà. Ma è anche rendersi vulnerabili accettando la possibilità della ferita e della sofferenza. E quando le sue ali vi avvolgeranno, affidatevi a lui. Anche se la sua lama, nascosta tra le piume, vi può ferire. Perché se è vero che l’amore ha in sé una promessa di felicità, altrettanto reali sono i pericoli a cui il sentimento espone gli innamorati. Pericoli come il vento del Nord, che arriva improvviso, portando scompiglio e devastazione. E’ il vento del cambiamento che soffia via le tue convinzioni, le costruzioni di una vita intera, per fare spazio a qualcosa di ignoto e incontrollabile. L’amore diventa dunque impeto e tempesta.”

Vi batte finché non sarete spogli.

Vi setaccia per liberarvi dai gusci.

Vi macina per farvi neve.

A chiudere il discorso del poeta Gibran intorno all’amore è un ultimo precetto. E’ forse l’insegnamento più difficile da trasmettere agli amanti, smaniosi di possedere l’oggetto della loro passione: l’amore non possiede né vorrebbe essere posseduto, poiché l’amore basta all’amore. Un inno a questo sentimento come atto di libertà, di generosità assoluta, che dà senza chiedere nulla in cambio. L’amore non dà nulla fuorché se stesso, e non attinge che da se stesso.

Dopo aver immaginato questo incontro con il poeta mi viene da chiedermi solo una cosa: che fine ha fatto l’amore per l’amore? In un mondo in cui le persone sono diventate frettolose e pensano di poter avere sempre di meglio (molte dicono “non mi impegno perché posso avere tutti gli amanti che voglio”), dov’è finita la voglia di stare insieme e di impegnarsi?

Quindi a voi chiedo: cos’è l’amore? Se è davvero una forza devastante come Gibran ha detto, ha ancora senso cercarlo e amarlo?

Elena Ricci

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