Luigi ovvero l’armonia difficile ma possibile con la natura

Classe 1908. Luigi (nome di fantasia) ha trascorso tutta la sua vita in una casa in pietra nel cuore della Sila greca, in quella parte che si dipana e scende verso Longobucco.

Non aveva mai abbandonato quei luoghi né, ricordava, aveva mai dormito altrove. In quella dimora umile ed essenziale ha trascorso tutta la sua vita e sempre lì la
morte lo aveva colto in un tiepida giornata primaverile, quando la neve non si è ancora completamente sciolta, lasciando qualche residuo ammassato sui bordi delle strade, sulle alture e persino sulle cime più alte dei pini. In un angolo della stanza un grande camino, ricordo della famiglia numerosa di cui aveva fatto parte. Un tavolo, due sedie in paglia e un letto il cui materasso era fatto di fodere di spighe
essiccate che, al solo sedersi sopra, facevamo un rumore cui il nostro amico si era da tempo abituato.

Una vecchia radio a transistor gli teneva compagnia nella fredde serata invernali. La TV non l’aveva mai avuta e, oltretutto, in quel posto non sarebbe stata in grado di
recepire segnale alcuno. Anche il cellulare non prendeva, trovandosi la dimora in una valle, nella quale anche il sole faceva fatica ad attemparsi. All’epoca nella quale lo conoscemmo – circa 15 anni fa – era già novantenne, per cui si dedicava prevalentemente ai suoi due gatti.

Le mucche e le pecore di cui si era occupato per tutta la vita non c’erano più: gli era toccato venderle qualche anno prima per impossibilità di continuare a occuparsene. Gli parlavamo del mondo, di ciò che accadeva al di fuori di quel luogo, della vita frenetica, di come il tutto fosse andato avanti e di come l’orologio della sua vita si fosse di fatto fermato a oltre mezzo secolo prima.

Mentre gli raccontavamo del “progresso”, ci guardava quasi divertito e concludeva
con la stessa espressione: “tutto ciò di cui ho bisogno è qui, non mi serve altro”. Continuava, malgrado l’età avanzata, a coltivare l’orto, le patate, il mais, garantendo alla sua parca vita una sopravvivenza fatta di essenziale. Non mangiava carne di vitello per considerava questi animali quasi sacri: “hanno sempre fatto parte
della nostra famiglia, ci davano una grossa mano nel lavorare i campi
e nessuno della mia famiglia se ne è mai cibato”.

La corrente elettrica mancava – non sappiano se per scelta e altro – e un lume a
batteria serviva a procurare un minimo di bagliore di notte all’occorrenza. La luce che viene dal camino gli era più che sufficiente di sera. Andava a letto presto e si levava alle 5. Il frigo non era una necessità per lui, tanto meno con quelle temperature.

Insomma, Luigi se ne stava in quella vecchia casa, priva di ogni comfort e da lì osservava, per nulla incuriosito, il mondo che si affannava. “Che state a fare?- sembrava dire a tutti noi – A che serva questa corsa? Per andare dove?”. La mancanza assoluta di ogni esigenza, al di là del minimo per sopravvivere, aveva di fatto determinato una sorta di “superiorità” di quell’uomo rispetto al resto
del mondo.

Per nulla interessato a corse, conflitti, competitività che riempiono – spesso deturpandola – la vita di ciascuno di noi, Luigi era stato in grado di stabilire un’armonia con l’ambiente in cui era nato e dal quale non si era mai distaccato. Quel mondo lo aveva ripagato restando sempre uguale, non cambiando. Una sintesi armonica nella quale l’uomo rispettava l’ambiente e l’ambiente lo accoglieva e
nutriva.

I lupi, fedeli compagni delle notti invernali, non lo avevano mai spaventato, né lo avevano mai attaccato, quasi a confermare col loro atteggiamento pacifico l’aderenza stretta di quell’uomo col resto del paesaggio. Luigi lasciò il mondo quasi centenario, rifiutando sempre di spostarsi in ambienti più consoni.

Lo trovarono dopo giorni adagiato sul letto con un lieve sorriso abbozzato. Il suo ambiente aveva contribuito a preservarlo dalla decomposizione, quasi a volerne prolungare la presenza armoniosa, quale era stata per quasi un secolo.

Massimo Conocchia

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