Era vietato, era peccato mortale!

Un tempo, anche se a noi non molto lontano, avvicinare una ragazza era impresa ardua. Ognuno non aveva occhi, che gli bastassero, per vedere e sparlare di questo o quello che si era fermato, anche in foma innocente, intrattenendosi con una ragazza.

– Che male c’era? -, direte col senno di oggi, ma non lo era allora.

Il vociare, lo spettegolare poneva in allarme i familiari della ragazza, che la rimbrottavano e guardavano con occhio torvo, minaccioso, che aveva avuto l’ardire di rivolgere la parola ad un giovane.

A questo va aggiunta la pitoccheria e le reprimende degli ecclesiastici, che vedevano il peccato dovunque, mentre, secondo alcuni, a loro era permesso tutto, anche correre la cavallina, con la giustificazione: – Anche loro sono uomini!

Ai fedeli e non, però, non era permesso. Quell’intrattenersi, anche se fugacemente, era peccato! Perché, a parer loro in quel breve colloquio si nascondeva la possibilità d’una tresca.

I familiari, da parte loro, cresciuti nel clima anzidetto, pensavano che tutto questo disonorasse le ragazze e avrebbero stentato non poco a trovare un marito.

Rubare un bacio, poi era cosa difficilissima e, per i sacerdoti era peccato mortale.

Bisognava confessarselo e, nella migliore delle ipotesi sorbirsi la reprimenda dal peccatore-confessore che, magari, da impenitente qual era, faceva qualche profferta, come apprendiamo da un canto popolare.

La ragazza alla profferta si era risentita e minacciava il confessore: Moni t’accusu iu ccu’ munzignùru! Lui, con fare spavaldo, aveva l’ardire di rintuzzare:

E munzignùru, a mia chi mi po’ fari?

Mi caccia lu collàru?… Ed iu mi ‘nzuru!

Il giovane, toccando il cielo con un dito aveva rubato un bacio.

Il risentimento della ragazza era immediato. Lo guardava torvo, né accettava un incontro segreto, per scusarsi.

Allora? Al giovane non gli restava che cantare quanto non le poteva dire a voce.

A sera, al calare delle tenebre si recava distante da dove abitava la ragazza, ma non tanto che non potesse ascoltare il canto. Nel silenzio assoluto di quelle notti echeggiava, sconsolato l’assolo sull’aria della Villanella:

Giojuzza, anima mia, ti si ‘ncagnàta,

ca l’atra sira ti dunài ‘nu vasu!

Luci de l’uocchj mia, nun è peccatu;

ni simu urtàti sulu nasu e nasu…

Via, nu’ mi fari mo’ cchiù la ‘ncagnàta,

cà dintr’ ‘u piettu l’anima si scasa!

Iu ‘ncunu stùozzu nu’ mi l’haju scippàtu

‘e ‘ssi labbra culuri de cerasu.

Il giovane sa come si ragionava all’epoca. Cerca di minimizzare, per quell’atto istintivo, dettato da amore profondo. Lei, però, è adirata e l’innamorato le precisa: Non è peccato; in fondo ci siamo urtati solo con i nasi. Io soffro molto, per questo tuo atteggiamento, tanto che mi sento uscire fuori l’anima, ossia mi sento morire. In fondo, se ci pensi, non ti ho portato via un pezzo delle tue labbra rosse come le ciliegie.

Quanta poesia!

Le vicine pettegole l’indomani avrebbero fatto conciliabolo e commentato sul canto sciolto dal giovane, che aveva avuto tant’ardire e della giovane che, giustamente, secondo loro, si era ribellata e risentita.

E, voi? Commentate, si spera in modo più benevolo.

Giuseppe Abbruzzo

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