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«Mi ha negato un abbraccio, si è girata di spalle, io ho preso un sasso e l’ho colpita più volte», così Alessio Tucci, il diciottenne che ha ammazzato la quattordicenne Martina Carbonaro, ad Afragola, in provincia di Napoli. Mi voleva lasciare, disse Filippo Turetta, dopo le 75 coltellate inflette a Silvia Cecchettin, mi voleva lasciare, disse Marck Samson dopo l’uccisione di Ilaria Sula. Stefano Argentino, un collega di università, ha ucciso Sara Campanella dopo averla perseguitata solo perché lei non era interessata a lui e così via.
Orrore su orrore, ti uccido, uso violenza, ti ammazzo, ti faccio sparire dalla vita, interrompo il tuo battito e il tuo respiro, i tuoi pensieri, i tuoi sentimenti “SOLO” perché non mi vuoi o non mi vuoi più. Ragazzi come tanti, è questo che fa orrore, che vanno a scuola e all’università, che vestono bene, si mettono i cappellini, si guardano spesso allo specchio, ragazzi così, banalmente normali, banalmente poco interessanti, capaci di mostruosità che li sovrastano e li segnano a vita. Non sanno nulla di loro stessi, non conoscono le loro emozioni, non sanno controllare il desiderio sessuale e l’istinto di violenza. Dove hanno appreso la sessualità?
Dove hanno imparato a voler bene? Cosa guardano sul loro social? Cosa sanno del mondo, delle donne, della vita? Cosa pensano delle donne, cosa pensano di loro stessi? Giovani, giovanissimi, incapaci di parola, di argomentazioni, incapaci di fallire, di errare, non capaci di stare davanti a un no. Ma chi sono? E le loro madri e i loro padri come li hanno amati, cosa hanno detto loro riguardo l’amore, riguardo la sessualità, riguardo il rispetto? E cosa imparano tra pari, cosa si dicono sulle ragazze? Di cosa parlano con gli insegnanti a scuola, magari spesso non ci vanno, si annoiano, sono svogliati, si automarginalizzano.
Tutte le storie sono simili, tutte le storie sono diverse. I telefonini e i social creano conformismi di stile, nelle foto sui loro profili paiono tutti vivere in quartieri “bene” e poi magari, vivono nelle periferie, in piccoli centri dove non c’è nulla per loro, in scuole che li annoiano e in cui magari si sentono marginali o poco coinvolti. Sui social hanno magliette firmate, espressioni accattivanti, sguardi “machisti”, vivono in humus di una maschilità tossica, senza saperlo, senza esserne neanche minimamente consapevoli. “Naturalmente” pensano di essere proprietari di “quella” ragazza che pensano propria e che poi ammazzano se si sentono non più voluti.
I contesti contano, le relazioni contano, le famiglie contano, la scuola conta, i social contano ma contano le emozioni, contano i sentimenti, contano i pensieri propri, le cose che si sentono. Se lei non ti vuole più, non è perché sei sbagliato, soltanto non ha più lo stesso sentimento, tu resti quello che sei, mi verrebbe da dire “lo stronzo” che sei. Ho tre nipoti maschi e tre nipoti femmine, con loro mi capita spesso di parlare delle loro vite, sono in allerta, soprattutto con i più piccoli e le più piccole, sulle cose che vedono, sulle cose che scrivono, su come usano il loro corpo nei social. Insomma, siamo tutti coinvolti. Ma perché uccidere, in quel momento sei morto anche tu che uccidi. È un tale groviglio di narcisismo e masochismo, di patriarcato naturalizzato e fragilità post-pandemica che non se ne viene fuori. Le stanze di psicologhe e psicologi sono piene di ragazzi e ragazzi colmi di paure, di ansie, di timori, e questo io lo reputo un bene.
Che questa però non sia una delega a terzi di figli e studenti e amici: la psicoterapia aiuta ma è la socialità sana che aiuta di più. Nel libro “La generazione ansiosa” di Jonathan Haidt con sottotitolo “come i social hanno rovinato i nostri figli”, l’autore di dice cheLa Generazione Z, quella dei nati dopo il 1995, è la prima ad aver attraversato la pubertà con in tasca un portale verso una realtà alternativa eccitante, ma pericolosa.
È la prima ad aver sperimentato la transizione da un’infanzia fondata sul gioco a un’infanzia fondata sul telefono: i teenager della Gen Z trascorrono ore e ore ogni giorno a «scrollare» post, a guardare video proposti da algoritmi programmati per trattenerli online il più a lungo possibile, a vedere cose pessime, sulla vita, sulle donne, sulla sessualità, sulla bellezza e hanno passato molto meno tempo a giocare, parlare, toccare, esperire il mondo reale. Sono privati, cioè, di quell’apprendistato sociale insostituibile per lo sviluppo alla vita adulta.
Al progressivo spostamento dal mondo fisico a quello virtuale è corrisposta anche la transizione da un’infanzia libera a una ipercontrollata: mentre gli adulti hanno infatti iniziato a proteggere eccessivamente i bambini nel mondo reale, li hanno lasciati privi di sorveglianza in quello online. I genitori non sono tutti uguali, i figli non sono tutti uguali ma siamo tutti colpevoli. Assistiamo a una «riconfigurazione» dell’infanzia interferisce con lo sviluppo sociale e neurologico di bambini e adolescenti, causando ansia, privazione del sonno, frammentazione dell’attenzione, dipendenza, solitudine, paura del confronto sociale, paura del rifiuto e del fallimento.
Eppure, molto si può fare, ma ci vogliono genitori istruiti e informati e attenti e presenti, e insegnanti presenti e istruiti e attenti e buoni amici. E poi le ragazze, le ragazze, che vogliono vivere libere, di scegliere, di desiderare e di non morire…
Assunta Viteritti