Anni 70: cambiano le ondate migratorie, il Nord Italia diviene la meta preferita
Negli anni 70 le ondate migratorie, che hanno interessato in maniera massiccia anche Acri, cambiarono profondamente. Si ridussero significativamente “i germanesi“. L’emigrazione verso la Germania era stata predominante negli anni 50 e 60 del secolo scorso, quando la necessità di ricostruire richiedeva manodopera a tutti i livelli. Negli anni 70 si è preferito spostarsi verso il Nord Italia per ovvie ragioni, a cominciare dalla maggiore facilità di spostamento e quindi minori difficoltà a ricongiungersi periodicamente col nucleo familiare.
Mete preferite Torino ma anche Milano e Genova. Sicuramente il meridionale che si spostava al Nord faceva molta difficoltà ad integrarsi e trovava non pochi ostacoli. Già solo la ricerca di un alloggio era un problema. Le città del Nord pullulavano di cartelli con su scritto: “non si affitta a meridionali”. Riscattarsi da un marchio era impresa non semplice.
Alcune realtà, come Torino e Milano risolveranno in maniera spicciola il problema emarginando questa manodopera in quartieri dormitorio o nell’estrema periferia ai tempi molto degradata. Pensiamo a realtà come Michelino, Mirafiori sud nel torinese o a ciò che significasse negli anni 70 vivere in realtà come Ponte Lambro a Milano. Ricordiamo bene quegli ambienti. Molti acresi che lavoravano a Milano erano concentrati prevalentemente in una via di Ponte Lambro, il cui nome già di per se era eloquente.
Imboccando la “via degli umiliati” (il nome si riferiva a un ordine religioso, ma il toponimo riportava automaticamente alla mente un parallelismo con una condizione di vita ) era un pullulare di nostri concittadini, alcuni dei quali abitavano in strutture vecchie e scarsamente servite. Più tardi il Comune di Milano farà in quelle zone delle case popolari, tristemente note come “le case bianche”, altro esempio di emarginazione e disagio per molti anni.
L’aeroporto di Linate, ma anche imprese come Mont Edison, Montecatini accoglievano i meridionali, bisognosi come erano di forza lavoro generica. Contestualmente, cercavano però di tenerli a debita distanza per quanto attiene alla vita quotidiana. In sintesi, andavano bene come “schiavi” ma integrarli e farli sentire a casa era altra cosa.
Negli anni ’70, l’Italia si trovò in una situazione paradossale: da un lato la società sembrava progredire verso la modernità, dall’altro si acuirono tensioni sociali profonde. Gli emigrati meridionali furono tra le principali vittime di questo squilibrio.
I meridionali al Nord furono spesso visti come “corpi estranei”, portatori di una cultura percepita come arretrata. Etichette offensive come “terroni” divennero di uso comune, anche nei luoghi di lavoro e nelle scuole. La loro identità culturale veniva sistematicamente ridicolizzata o criminalizzata.
Nonostante svolgessero lavori faticosi e mal retribuiti – spesso quelli rifiutati dai residenti del Nord – venivano accusati di “rubare il lavoro” o di portare degrado nei quartieri operai. Questa narrazione contribuì a creare un clima di sospetto e isolamento. L’emarginazione non era solo culturale, ma concreta. Anche i figli degli emigrati subivano discriminazioni nelle scuole. Venivano spesso derisi per il loro accento, esclusi dai gruppi di pari, penalizzati nelle valutazioni.
Il sistema scolastico del Nord faticava a riconoscere e valorizzare la diversità culturale, contribuendo così a rafforzare le barriere sociali. Nel mondo del lavoro, i meridionali si scontravano con una gerarchia rigida, che li relegava, spesso ma non sempre, alle mansioni meno qualificate e con minori possibilità di carriera. La loro ascesa sociale era ostacolata non solo dal pregiudizio, ma anche dalla mancanza di reti familiari e relazionali.
L’emarginazione degli emigrati meridionali al Nord negli anni ’70 non è solo un capitolo della storia italiana, ma una ferita ancora aperta nella memoria collettiva. Sebbene oggi le dinamiche migratorie interne siano molto cambiate, permangono disuguaglianze territoriali e pregiudizi culturali che affondano le radici proprio in quel periodo. Riflettere su quella stagione significa non solo riconoscere le ingiustizie subite da milioni di italiani, ma anche interrogarsi sul concetto di identità nazionale, sulle contraddizioni del progresso e sul valore dell’inclusione.
Massimo Conocchia



















