Che fine ha fatto il campo largo?

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Le recenti elezioni regionali, non solo in Calabria ma anche nelle Marche, hanno consegnato un quadro quanto mai eloquente, utile anche per il prossimo e medio futuro. E’ facile dedurre che il Centro Destra gode di ottima salute, mentre lo schieramento opposto arranca e non poco, pur avendo a disposizione una marea di argomenti con cui “asfaltare” chi è oggi al governo.

Giorgia Meloni è in difficoltà non solo sul piano interno ma anche su quello internazionale, su cui la nostra insussistenza come Paese non è mai stata così marcata.  Sul fronte interno, le piazze affollatissime per Gaza rimarcano una distanza con l’esecutivo abissale. In quelle piazze c’era il Paese reale, compresi i disillusi che non si recano a votare. Non a caso il Presidente del Consiglio si è affrettato a liquidare  come sterile opposizione al governo i movimenti spontanei e apartitici che hanno recentemente affollato le piazze.

Dai mancati interventi sulle pensioni, alle accise, al caro vita, alla montagna di soldi sprecata per far nascere e mantenere in vita gli inutili centri accoglienza migranti in Albania, ci sarebbero un’infinità di temi con cui incalzare l’esecutivo e richiamare l’attenzione della gente. Tuttavia, una frammentazione mai superata, la cura dei propri orticelli, l’insofferenza dell’elettorato 5 stelle – che premia Conte quando corre in autonomia mentre non lo segue quando si allea col PD – la mancanza di una visione comune, la frammentazione sempre più evidente tra Dem e sinistra nel PD rappresentano dei macigni alla costruzione di una casa comune dei progressisti che appare oggi quanto mai lontana.

Sognato da molti come l’Ulivo del XXI secolo, il campo largo è stato spesso evocato più come orizzonte ideale che come realtà concreta, soffocato oggi e ostaggio delle sue contraddizioni interne e dell’ambiguità strategiche dei suoi attori. Ci troviamo di fronte ad un’architettura instabile, priva di fondamenta ideologiche comuni e facilmente esposta alle tensioni contingenti. L’atteggiamento ambivalente delle cosiddette forze centriste ha finito per disorientare ulteriormente, contribuendo a dare l’dea di un progetto che non può decollare.

La deriva del campo largo non è solo una questione di alchimie politiche mancate. Riflette una crisi più profonda: quella di una visione condivisa del futuro del Paese. Il rifugiarsi nella gestione dell’esistente, nel tatticismo elettorale e nella ricerca di un sempre più risicato di un minimo comune denominatore hanno contribuito a definire l’attuale quadro. Il campo largo è oggi diventato un’idea vuota, una retorica priva di contenuto, smentita ogni giorno dalla realtà dei fatti.

L’idea che lo aveva generato resta tuttora valida, in un Paese profondamente segnato da disuguaglianze crescenti, da tensioni sociali, da una democrazia rappresentativa sempre più fragile, da tentazioni autoritarie che hanno esasperato il confronto non solo politico ma hanno indebolito gli altri poteri e contrappesi, visti come ostacoli piuttosto che garanzie. Perché il campo largo possa ambire a guidare il Paese, occorrerà un nuovo patto culturale e politico, capace di ridefinire i confini della Sinistra e del progressismo, adattandoli al nuovo contesto.

Occorre un programma condiviso basato su punti chiari e attuabili, lasciando fuori tematiche divisive (penso alla questione energetica ad esempio). Occorrerà anche una figura di garanzia capace di guidare la coalizione, che non sia diretta espressione di nessuna delle forze in campo ma che abbia la funzione di sintesi e collante. Il tempo stringe, anzi è finito.

Massimo Conocchia

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