Come il cappuccino
Erano una coppia collaudata, oltre sessant’anni di matrimonio. Fidanzamento fugace, come si usava: non oltre sei mesi, poi all’altare. Classe 1936 entrambi. Sposati negli anni ‘50. Una settimana dopo lui era in Germania, che all’epoca offriva possibilità di lavoro a chiunque ne avesse voglia. Wolfsburg è una fredda città, troppo fredda per starci da solo. Dopo sei mesi lei lo raggiunse e lì sono nati i quattro figli.
Operaio presso la grande e popolare casa automobilistica Volkswagen lui, operaia tessile lei per venti anni, dopo di che decisero di rientrare in patria, vivendo di lavori saltuari lui, mentre lei riusciva a portare a casa qualcosa facendo la sarta. I figli ormai grandi e le minori esigenze hanno permesso loro di vivere decentemente. Erano inseparabili. Uscivano praticamente sempre insieme e, anche in occasione dei controlli di lui, lei era sempre presente. “Se non ci fosse lei, sarei perso; è lei a darmi le medicine, io non ricordo nemmeno i nomi”.
In effetti, mentre chiedevamo le cose a lui, era sempre la moglie a intervenire supplendo a un chiaro vulnus del marito. Insomma, una coppia rodata, nella quale l’interdipendenza non era un peso per nessuno dei due ma il risultato di una simbiosi veramente rara. “Siamo come il cappuccino” – ripeteva spesso lei- “Nella tazza sono presenti sia il latte che il caffè ma non è dato sapere dove finisce uno e comincia l’altro dei componenti, sono fusi, in un tutt’uno”.
Osservandoli, in realtà, era davvero così: un modo unico e raro di condividere l’esistenza al punto da confondersi in una entità unica, dove non c’è quasi distinzione o distinguo. Negli ultimi tempi il marito, anche in coincidenza con l’avanzare degli anni e degli acciacchi, era ossessionato dalla paura di restare solo.
Si augurava che fosse lei a chiudergli definitivamente gli occhi. In sessant’anni, non c’era mai stata – riferivano – una sera nella quale si fossero addormentati col broncio. Se anche discutevano, prima di andare a letto dovevano necessariamente fare pace. “La notte è oblio, e se non mi svegliassi, sarebbe terribile andarsene senza avere fatto pace”. In pratica, la simbiosi era tale che non concepivano l’idea di trovarsi su posizioni diverse. Per una beffa del destino, fu lei a partire per prima, nel sonno. Lui ha chiamato i soccorsi ma non ci fu nulla da fare.
Ha pianto senza lacrime, guardava il letto vuoto senza dire una parola. Lo smarrimento di lui si leggeva negli occhi sbarrati e persi: “e ora?”, fu l’unica cose che riuscì a dire. Il tormento durò poco.
A sette giorni dalla morte di lei, fu trovato su una poltrona con volto che abbozzava un mezzo sorriso. Era come se il suo cuore, rimasto senza il battito dell’altro, avesse dimenticato come si fa a restare acceso da solo. Era come se avesse finalmente ritrovato quella parte di lui, che gli mancava. Il cappuccino si era, finalmente, ricomposto.
La vita di queste due persone è stata una sorta di completamento reciproco. Non c’era mai stato bisogno di tante parole tra loro. Bastava uno sguardo, un gesto, un respiro. C’era chi sentenziava che una simbiosi così era eccessiva, non sana.
Loro, semplicemente, non sapevano vivere diversamente. Ogni gesto della giornata era calibrato sull’altro. Dormivano tenendosi per mano, anche quando le dita erano diventate fragili e gonfie per l’artrite. La storia di queste due persone non è fatta di grandi imprese, di cronache memorabili. Ma è fatta di quello che conta davvero: la presenza costante, la scelta riproposta ogni giorno di esserci l’uno per l’altro.
Alcuni amori bruciano in fretta, consumano tutto. Il loro no. Il loro era un amore che costruisce, che regge il tempo, che si confonde con l’aria che si respira. E alla fine, anche la morte ha dovuto piegarsi a questa simbiosi.
Massimo Conocchia



















