Merito e meritocrazia
I concetti di merito e meritocrazia sono tornati centrali nel dibattito pubblico, suscitando contrapposizioni ideologiche. I sostenitori del merito richiamano l’articolo 34 della Costituzione, che riconosce ai “capaci e meritevoli, anche se privi di mezzi” il diritto di accedere ai più alti gradi dell’istruzione.
Ma come conciliare merito e uguaglianza? Se da un lato le visioni conservatrici imputano al presunto egualitarismo del Sessantotto il declino del principio meritocratico, le prospettive progressiste insistono sull’uguaglianza delle opportunità e sulla necessità di una scuola in grado di compensare le disuguaglianze di partenza. Un riferimento importante è L’avvento della meritocrazia (1958) del sociologo Michael Young, che immagina una società futura dove la meritocrazia, nata come ideale di giustizia, si trasforma in un regime oppressivo.
L’autore denuncia così il rischio di una visione che misura il valore umano esclusivamente attraverso il rendimento, sacrificando i principi di solidarietà e uguaglianza. Negli anni Settanta altri sociologi, Pierre Bourdieu e Randall Collins hanno ridefinito la riflessione sul tema. In La distinzione (1979), Bourdieu mostra come i sistemi educativi riproducano il classismo culturale, premiando chi possiede già capitale sociale e culturale. Nello stesso anno, Collins, in The Credential Society, interpreta i titoli di studio come strumenti simbolici per mantenere le gerarchie sociali.
Una critica simile emergeva già in Lettera a una professoressa (1967) di don Lorenzo Milani, che denunciava una scuola incapace di offrire pari opportunità ai più svantaggiati. In Italia, il dibattito è tornato d’attualità con la decisione del governo Meloni di rinominare il “Ministero dell’Istruzione” in “Ministero dell’Istruzione e del Merito”. Secondo il ministro Valditara, la scuola deve fondarsi su “merito, rispetto e centralità della persona”. Tuttavia, il merito, solo in apparenza neutro, può diventare strumento di esclusione. Fenomeni come l’“effetto San Matteo” – per cui chi parte avvantaggiato accumula ulteriori risorse – e l’“effetto Pigmalione” – che evidenzia l’influenza delle aspettative degli insegnanti sul rendimento degli studenti – mostrano come la scuola possa amplificare le differenze di partenza.
Una prospettiva complementare è offerta di recente dai sociologi Luciano Benadusi e Orazio Giancola che in Equità e merito nella scuola analizzano i principali paradigmi teorici sulla giustizia e l’equità educativa, interrogandosi sul significato dell’istruzione e sul futuro dell’equità in educazione. Le disuguaglianze si manifestano con particolare evidenza tra studenti italiani e stranieri. Secondo Save the Children e Istat, gli alunni senza cittadinanza sono circa 860.000 e tra questi la dispersione scolastica è più alta di quella dei coetanei italiani. Ottenere la cittadinanza riduce l’abbandono e migliora il rendimento.
Ignorare tali disparità mentre si invoca il merito risulta dunque ipocrita e controproducente. Nonostante ciò, il dibattito continua a concentrarsi su strumenti di valutazione e su classifiche, come Eduscopio, progetto della Fondazione Giovanni Agnelli, che confronta le scuole italiane in base agli esiti universitari o lavorativi dei diplomati. Pur utile all’orientamento, questo approccio rischia di rafforzare la competizione tra gli istituti scolastici trascurando le cause strutturali delle ingiustizie educative.
Le ideologie neoliberiste e conservatrici tendono a giustificare le disuguaglianze come naturali, attribuendo al successo o al fallimento origini biologiche o morali. Invece ogni essere umano possiede la stessa capacità di comprendere e imparare, purché sostenuto da condizioni sociali adeguate. La scuola fondata sul modello gerarchico in cui l’insegnante “sa” e l’allievo “non sa”, non emancipa ma riproduce subordinazione. L’educazione dovrebbe invece consentire a ciascuno di scoprire la propria capacità di pensare autonomamente. Insegnare significa emancipare, non selezionare.
Assunta Viteritti


















