Donne e delitti nella Calabria del Novecento

Si pensa spesso alla donna del Sud, nel Novecento, come una figura subalterna e spesso lo è stata. Esiste, però, un aspetto poco dibattuto della donna in Calabria nel secolo scorso e riguarda il ruolo che ha a volte assunto, di eroina tragica, in senso negativo, protagonista del proprio destino. La donna, in sintesi, sfuggendo al ruolo marginale assegnatole, rivendicava,  in pochi casi, con forza e determinazione, la funzione di “vendicatrice” o, in altri casi, di esecutrice di delitti in nome di un malinteso senso dell’onore, il cui oltraggio andava lavato col sangue.  Anche Acri, tra la fine degli anni ’40 e gli inizi del decennio successivo, è stata teatro di delitti commessi dal “gentil sesso” per lavare oltraggi, che, in quel tipo di società, rischiavano di lasciare macchie indelebili sull’interessata e sui familiari.

Donne determinate e decise a compiere gesti estremi per non sfuggire ai canoni classici, che confondevano l’onore con l’onorabilità e la dignità con la necessità di cancellare chi arrecava offesa per annullare l’offesa stessa.

Donne che, con freddezza, hanno trucidato l’uomo a cui si erano anzitempo concesse, in nome di un amore che non conosce ostacoli. Colui a cui si erano date totalmente diveniva, in quel contesto, degno di poco rispetto, agli occhi dei più, se avesse sposato la donna che amava e che stava per dargli un figlio. Quel gesto di amore estremo veniva usato come una clava per colpire e umiliare colei che poco prima si era amata ma che una società bigotta, falsa e perbenista, spingeva a ripudiare. Solo una donna di facili costumi si poteva concedere prima del matrimonio, pensavano i più. Quel marchio di infamia era tale da cambiare il destino di una donna, che, assai spesso, veniva ripudiata anche dagli stessi familiari. Da qui la determinazione a compiere gesti estremi che avrebbero ridato dignità a chi risultava umiliata e derisa. Il codice Rocco, mentre di fatto garantiva impunità agli uomini che si macchiavano del cosiddetto “delitto d’onore”, non era altrettanto benevolo con la donna, che, come successo nei casi indicati, veniva condannata con particolare ferocia, nonostante aspettasse un figlio, frutto di “quell’errore” iniziale.

In altri casi, la donna, vessata e umiliata da un marito impostole e che non amava, è giunta alla determinazione di avvelenarlo, spinta dalla convinzione di potere finalmente uscire da una condizione di umiliazione e  sottomissione  e, magari, rifarsi una vita.

Situazioni estreme, che raccontano, però, di un Paese e di una specifica realtà che non  permettevano seconde possibilità alle donne, condannate a non uscire da una condizione di subalternità. Chi lo faceva aveva una sola via d’uscita, che passava attraverso l’emarginazione e il carcere. Alla donna non era in alcun modo concesso di sovvertire le regole perbeniste di una società che basava il suo vivere su una falsa morale e su principi validi in una sola direzione. Tanta acqua dovrà scorrere sotto i ponti avanti che, nelle nostre realtà, alla donna venga concessa pari dignità e pari diritti rispetto all’uomo. Fino alla fine degli anni ’50 era vigente nel nostro ordinamento giuridico lo “ius corigendi”, che concedeva all’uomo l’autorità e il diritto di “correggere”, anche con l’uso della forza, comportamenti del coniuge che riteneva errati. In un simile contesto, appare più chiara la determinazione di quelle poche che decidevano di non abbassare la testa, scegliendo una strada sicuramente più irta e sbagliata ma che, se non altro, consentiva loro di essere protagoniste del loro destino.

Massimo Conocchia

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