La miniera: fonte di reddito e di morte

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Negli anni ’50, ’60 e ’70 del Secolo scorso, una delle principali fonti di reddito per la nostra gente fu il ricorso al lavoro in miniera. Molti, da contadini e braccianti, si tramutarono in minatori. Il lavoro nelle gallerie, per garantire al nostro Paese strade e autostrade degne di uno Stato moderno, era particolarmente redditizio e garantiva, a fronte di un rapido logoramento delle vie aeree, una paga più che dignitosa, necessaria e vitale per nuclei familiari mediamente composti da 5 figli. La silicosi è stata, per tutta la seconda metà del Novecento, la malattia professionale più diffusa in Calabria. Chi lavorava a lungo in miniera, raramente raggiungeva e superava la sesta decade di vita. Seconda causa di morte tra i ceti popolari è stata la cirrosi epatica postalcoolica.

Ricordo queste giovani vite prematuramente logorate da una malattia professionale legata, anche, ai tempi, a una scarsa attenzione alle misure preventive. Nell’ultimo quarto del secolo scorso, non c’era famiglia operaria che non avesse al suo interno almeno un componente impiegato nelle miniere. Il fenomeno ha raggiunto proporzioni tali da gettare ancora oggi un’ombra di dolore nel presente. A danno creato e divenuto irreversibile, giungeva l’assegno I.N.A.I.L., che rappresentava un sostegno più che dignitoso per il lavoratore e le future giovani vedove. Lo Stato, in pratica, mentre negli stessi anni si preoccupava di incrementare gli investimenti per lo sviluppo industriale del Nord, nel Sud si limitava a interventi non strutturali in ambito agricolo, con la Legge Sila degli anni ‘50, che determinava la scomparsa del latifondo e la creazione di tanti piccoli proprietari, privi, però,  di strumenti adeguati per un serio sviluppo e incapaci di spirito corporativo, che avrebbe permesso loro di unirsi e divenire più forti. La stessa Cassa per il Mezzogiorno, creata in quegli anni, si rivelerà uno strumento puramente assistenziale e non adatto allo scopo per cui era nata, garantire un serio sviluppo delle regioni meridionali.

Le poche industrie che nasceranno al Sud, saranno o destinate presto al fallimento – per lo scarso supporto in termini di comunicazioni e collegamenti  – o sorgenti di veleni, che il Nord non voleva nel proprio territorio (pensiamo a Taranto).

In uno scenario siffatto, le uniche possibilità di sopravvivenza erano date dall’emigrazione verso il Nord Italia, la Svizzera e la Germania o, per chi non voleva allontanarsi molto da casa, dalla miniera.  Coloro che intraprendevano quest’ultima strada, sapevano benissimo verso quale destino si avviavano ma il patto con lo Stato era chiaro: la propria vita in cambio della sopravvivenza per sé stessi e, soprattutto, i superstiti.

Massimo Conocchia

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