Giro di vite

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Stava riordinando dei disegni sullo scaffale quando gli cadde a terra Giro di vite, un segnalibro della Ubik e un biglietto da visita.

Lo raccolse, si levò gli occhiali, sospirò profondamente. Non ebbe bisogno di leggere perché quell’originale piccolo logo sulla carta ruvida, una bilancia grigia in campo bianco, gli ricordò Chiara, Chiara Alberta Pastorino, avvocato matrimonialista, via Enrico Fermi 51, Genova, seguito da una serie di numeri di telefono e indirizzi mail.

Quanto tempo era passato? Due anni? Tre? Boh non aveva mai avuto memoria per le date ma non era ancora sposato quindi almeno due anni.

Alberto l’aveva incontrata in treno. All’inizio non l’aveva neanche notata occupando il posto di fronte a lei.  Un saluto di cortesia poi lei china sul tablet lui su un libro di Henry James.  Stava andando a Genova per un sopralluogo alla villa degli amici che gli avevano chiesto un parere sulla ristrutturazione in corso, scontenti del loro architetto che malgrado sembrasse un genio faceva solo danni, uno dietro l’altro, facendo lievitare fra l’altro il budget. All’arrivo a Porta Principe si erano alzati contemporaneamente e in quei pochi minuti precedenti l’apertura delle porte si erano scrutati a lungo.

Lei si era abbottonato il trench color tortora come se avesse freddo e lui, quasi senza pensare, le aveva rivolto la parola.

“Ha freddo?”

Pareva non ascoltare, poi aveva alzato di scatto la testa e gli aveva piantato addosso i suoi occhi verdi agitati “No, è la forza dell’abitudine. E inoltre non mi piace andare in giro con l’impermeabile aperto come fossi un pistolero di un film western.”

Lui era scoppiato a ridere e aveva replicato: “Le assicuro che non somiglia affatto a Giuliano Gemma o Clint Eastwood.”

Lei compiaciuta aveva abbozzato un sorriso e con un pizzico di civetteria aveva tirato fuori dal bauletto Louis Vuitton un biglietto da visita ficcandoglielo in tasca. Quindi scesa dal Frecciargento si era dileguata tra la folla.

Tre giorni dopo erano già a letto.  Anzi a dirla tutta l’avevano fatto sul pavimento della cucina di Chiara, che abitava in un raffinato loft in centro storico a Genova, arredato in maniera minimalista, ricercato e confortevole.  Era una che non amava i preliminari; non gli aveva lasciato nemmeno il tempo di finire il suo whiskey che aveva cominciato a spogliarlo e palparlo, sussurrandogli di fare presto.  Aveva la figa più pelosa che avesse mai visto: peli lunghi e folti sul Monte di Venere, sull’inguine, sulle cosce. Non li aveva mai tagliati in vita sua, e ne andava fiera, come se fosse un valore aggiunto alla sua femminilità, al suo corpo agile, formoso e sodo.  Quarantadue anni di peli, senza dubbi, senza la tentazione di una ceretta o di una lisciatina.

Dopo l’amore si era rilassata: mangiando taleggio e cetriolini sottaceto gli aveva parlato del suo lavoro, e quindi di divorzi, di corna, della sua personale classifica delle corna, della cattiveria dei suoi clienti che facevano sempre la stessa identica richiesta “Avvocato, non mi interessa quanto tempo ci vorrà e quanto mi costerà, ma lo riduca in mutande.”

La storia era durata sei mesi, fino a quando non furono ultimati i lavori alla villa di Marco e Olga.  Mesi intensi perché era una donna bella, elegante, intelligente, amante del brivido e di tutte le infinite sfumature di una sessualità matura, disinibita, sorprendente, come quella volta che a teatro sotto l’elegante abito lungo e nero non portò le mutandine trasformando la prima del Don Giovanni in una gara di resistenza libidica. O come quell’altra volta dopo la cena in riviera quando pretese di scopare nel parcheggio, poggiati ad un albero rugoso con le macchine che facevano manovra a neanche un metro di distanza da loro. La sera a casa si era trovato un bruco peloso nella camicia.

Che tipa!

Al ricordo avvertì un fremito di eccitazione. Ebbe il desiderio di accendersi il sigaro. Gli piaceva fumare in ufficio perché l’aroma morbido e vellutato del Toscanello al caffè volava ma non si poggiava sui mobili, sulle carte, sulle pareti.  Amava questo momento intimo, perché era anche l’occasione per riflettere, progettare, chiudere gli occhi e sognare.

La segretaria bussò e come suo solito, senza aspettare risposta, entrò con la posta in mano.

“Architetto, ma fuma a finestre chiuse?”

“Marta, quante volte ti ho spiegato che dopo avere bussato, devi attendere il mio “avanti”?  Forse se avessi indugiato avrei aperto le finestre; scusami ora apriamo, dimmi pure.”

“Arrivata la convocazione per l’udienza da parte dell’avvocato di sua moglie, tale Chiara Alberta Pastorino.”

Alberto iniziò a tossire e sobbalzò dalla poltrona.

Aurora Luzzi

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