I ‘vecchi’ di Padia

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      Erano i primi anni Sessanta, anni a ridosso della fine dei grandi lavori per la costruzione della centrale idroelettrica del Mucone, lavori portati avanti a tappe forzate dall’impresa Farsura con turni di lavoro estenuanti di notte e di giorno; turni che vedevano lavorare i minatori in galleria senza alcuna protezione adeguata: si dava loro da bere solo un litro di latte al giorno, che sarebbe dovuto servire a disintossicarli. Erano minatori improvvisati, ex braccianti e contadini, che passavano 8, 10 ore al giorno, conficcati  nelle viscere della montagna come talpe e i loro corpi vibravano con i demolitori al lume di lampade a gas acetilene mentre respiravano la polvere di silicio,(la ‘pusia’, dal francese poussière), che, a lavori finiti, avrebbe procurato loro la micidiale silicosi.

Quei lavoratori, divenuti presto giovani-vecchi dal respiro pesante e rumoroso, che dava luogo, ogni volta che parlavano, a fischi stridenti, ottenuta una piccola pensione di invalidità, passavano le giornate seduti a frotte sui muretti che corrono al lato della strada che conduce alla torre civica e sui gradini della ripida scalinata che porta all’ingresso della chiesa più antica del paese, Santa Maria, edificata, sembra, sulle fondamenta di un preesistente tempio pagano.

Da quelle postazioni, quei vecchi, mentre si raccontavano antiche storie, accompagnate dalla ‘musica’ di quei sibili, che li avrebbe portati ad uno ad uno, inevitabilmente, a Nostro Signore, potevano godere della vista della verde valle del Mucone e del rintocco delle campanelle del vecchio orologio della torre da loro chiamata ‘castello’.

Quella valle, a quel tempo, veniva attraversata faticosamente a piedi ogni giorno da una miriade di persone lungo i tortuosi sentieri, che si snodavano sui due crinali, coricati a destra e a sinistra del fiume. Da quei sentieri, sia nelle giornate estive di canicola afosa che in autunno, quando tutta la valle era spesso avvolta da una nebbia fitta o tormentata da forti venti e corpose piogge, sbucavano sempre poveri cristi che rientravano in paese dopo una defaticante giornata di lavoro, spesa a raccogliere olive che crescevano a precipizio lungo i dirupi, dove spesso donne e uomini precipitavano nel tentativo di fare la magra raccolta delle drupe. Da quegli stessi sentieri sbucava anche la numerosa popolazione delle sperdute contrade del di là Mucone, che veniva in paese nelle grandi occasioni delle fiere, in cui comprava quanto serviva durante tutto l’anno, o per trasportare a mano in barella il malcapitato moribondo, alla ricerca di un medico per improbabili, inutili cure.

In quelle contrade da sempre si nasceva e si moriva a volte senza essere nemmeno registrati all’anagrafe per sfuggire alla leva militare; e qualcuno, dopo essere venuto al mondo, in paese si recava poche volte nell’intera esistenza. In quegli stessi luoghi così l’analfabetismo raggiungeva punte di oltre il novanta per cento. Anche in quelle contrade, come a Padia, i vecchi braccianti agricoli e i pastori trascorrevano la loro vecchiaia seduti davanti alle loro umili dimore, costituite quasi sempre da un basso di un solo locale, dove trovavano posto giacigli per dormire, con sotto bachi da seta che divoravano foglie di gelso, il focolare con cui cucinare e riscaldarsi durante l’inverno e ogni altra povera suppellettile occorrente per tirare avanti. In quell’unico basso viveva l’intera famiglia e animali da cortile come conigli e galline, che costituivano, insieme al maiale, l’indispensabile corollario per sopravvivere. Anche a Padia il basso quasi sempre era abitato da uomini e animali che vivevano in una simbiosi centenaria.

Tutta quella povertà però non si traduceva in miseria morale come si potrebbe facilmente immaginare, la convivenza sociale, nelle contrade come in paese, era improntata a grande solidarietà fatta di reciproco, spontaneo aiuto soprattutto fra i più anziani e bisognosi, percepiti, questi ultimi, come custodi depositari di ogni saggezza, pronti a condividere tutte le esperienze, le gioie, i grandi dolori di ogni membro della collettività di cui erano e si sentivano parte integrante.

Era questa la realtà della nostra terra, e quei vecchi di Padia con la loro semplicità, pur non avendo studiato la filosofia dei greci nei loro bassi, erano dei saggi, dei veri ‘sacerdoti’ di una sapienza antica che veniva tramandata oralmente da una generazione all’altra.

Certo non si può essere acriticamente nostalgici di quei tempi in cui la povertà regnava sovrana nella maggior parte delle famiglie e il libro con la scuola era pressoché del tutto assente, ma l’avvento diffuso della ‘civiltà’ industriale e tecnologica, che pure ha portato benessere largamente partecipato, ha anche distrutto la saggezza, la solidarietà, l’armonia corale e il coraggio con cui quei vecchi sapevano affrontare la vita. Al posto infatti di questi valori corali si è diffuso, insieme al benessere, aggressività, egoismo sfrenato, vissuti nel consumismo e una solitudine che minaccia la stessa sopravvivenza dell’individuo, che non comunica più con il suo simile faccia a faccia come quei vecchi, ma attraverso freddi, impersonali, tragici incontri virtuali, fatti di messaggi e messaggini di cui l’etere è stracolma. Tutto sta diventando virtuale: l’odio e l’amore, le carezze, i sospiri, il dolore e la gioia, che costituiscono le radici profonde dell’essere persona.

In altri termini rischiamo di diventare fredde macchine tra le macchine che noi stessi creiamo. Allora il pensiero corre all’immagine di quei vecchi che, seduti sui muretti del sagrato di Santa Maria a Padia, in anni ormai lontani, mentre discutevano e giocavano fra loro a briscola e tressette non mancavano mai di salutare con calore umano il passante chiamandolo per nome o soprannome, così come succedeva anche a me quando giovanissimo andavo al ‘castello’ a dare la carica all’orologio, che con i suoi rintocchi accompagnava il sonno tranquillo o la veglia agitata non solo della gente del vecchio paese ma anche delle sperdute contrade del di là Mucone; ci chiediamo allora se non sia il caso di recuperare, almeno in parte, la saggezza, la ‘dotta ignoranza’, di cui parlava già Niccolò Cusano nel XV sec., appunto di quei vecchi per assaporare ancora il valore della vita in tutta la sua pregnanza, in tutta la sua fondamentale semplicità!

Vincenzo Rizzuto

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