Coloriparolesegni e…sogni. Mostra di Michele Coschignano. Cinquant’anni di attività artistica

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«Un’immagine è più di un’immagine e a volte più della cosa stessa di cui è l’immagine».  P. VALÈRY

Uno scritto personale. L’incipit introduttivo a questo scritto potrebbe essere: questo non è una introduzione alla mostra.

Perché, scrivere del lavoro di Michele Coschignano è un esercizio che mi aiuta a ritornare indietro nel tempo e a ripercorrere momenti particolari della mia infanzia…e non solo mia.

Un atto per ringraziarlo di tutto quello che ha fatto in questi anni, lo stimolo e le emozioni che hanno accompagnato ogni singolo lavoro, le parole spese nell’entusiasmare ogni talento e progetto. Una occasione per ricordare le attività della Galleria Acheruntia, le estemporanee, i concorsi e tutto quanto abbia animato gli anni ‘80 e seconda metà degli anni ‘90. Questo viaggio è il viaggio di una intera cittadina che attraverso le sue opere si rivede allo specchio e riporta in luce storie. Questo può essere anche il senso della pittura: interrogarsi, mettere in luce e restituire tutto al proprio intorno.  In questi anni la sua pittura si è trasformata, entrando in una dimensione viva. Ogni suo lavoro ha per sua natura una ricerca biografica del vedere l’anima del mondo o semplicemente di definirne le sfumature. Un lavoro attento, meticoloso, quasi maniacale, metrica di precisione e allo stesso tempo di leggerezza del vivere. Una mostra che non è solo guardare l’opera. Ma raccontarti e raccontarci quello che è la sua passione e amore per la pittura. Arte all’arte, come qualcuno sosteneva. L’irripetibilità, perfino l’imprevedibilità o l’ignoto del fuori campo – che si accompagnano senza apparente contrasto alla sua pittura. Dipingere partendo da lontano, quindi, forse dal profondo del tempo. Una mappatura che tenta la topografia di un territorio inesplorato e difficilmente esplorabile, una “zona” altra… dove diventa inutile affidarsi alle nostre certezze sensoriali, essendo continuamente aggrediti da esperienze sinestetiche dal profumo di terra, di agrumi e altri odori dell’essere. Un brusio di fondo, generando soluzioni inaspettate oltre il paesaggio. La pittura come, forse, disciplina da destreggiare per compiere una sorta di esorcismo personale. La spontaneità delle sensazioni come sorgente, il dipinto come struttura reticolare per catturarle. Il lavoro crea un invisibile limite tra lo spazio della rappresentazione e quello dell’osservatore esterno, un perimetro disegnato. Una mostra credo che metta in evidenzia il suo essere e che definisce anche un luogo dove questi elementi si mescolano l’un l’altro alla consapevolezza della Vita e delle Sue episodiche sequenze. Un fare artistico reale è perfino anche troppo vero. Mettendo in gioco identità nel suo personale “essere dentro” sui problemi, anch’essi bifronti come è tutta l’umana esperienza, come, anche della memoria di ciò che è perduto, della irripetibilità temporale ma anche chi della necessità delle azioni, non gridata.  Del resto, questo continuo colloquio-confronto conciliazione tra opposti è una costante nella ricerca dell’artista, che si carica a volte di evocate reminiscenze alchemiche. Al superficiale e distratto tutto passa inosservato, all’occhio vigile ed attento nulla sfugge, lasciando l’osservatore, incantato da una visione originale che tanto sa trarre dalla natura e dalla realtà che lo circonda. Oggi, soprattutto domina l’invadenza di pixel e Led degli schermi, anche nell’arte. Ma un oggetto devi guardarlo a lungo perché si riveli. Richiede l’insistenza dello sguardo, stimola però anche il tatto, dopo l’occhio è la mano che vuole scivolare sulla superficie, seguire i pieni e i vuoti, saggiare il materiale, trovare il confine tra naturale e artificiale che ci permette di sottrarci al virtuale e di riconsegnarci alla materia. È un gesto, un segno lasciato evanescente nel tentativo di raccogliere un punto di vista.  Quest’attesa definisce un luogo, un posto dove fermare lo sguardo e tracciare quel ponte che fa avvicinare le due possibilità, figure di fondo, ovvero la comprensione dell’attesa. Essere contemporanei, dunque, significa essere in grado di percepire il buio del presente. Ciò vuol dire che riuscire a vedere il proprio tempo non è qualcosa di scontato, ma è il frutto di un’operazione di pensiero. Il segno/gesto che marca il vuoto nella pittura. Leggerezza, impalpabilità e silenzio. Il cammino dell’arte in genere, oggi, non si profila in un unico e definito scenario ma assume anche quell’ampia condizione di fallimento che sempre più si rende necessaria per apprendere e crescere. Diviene più importante saper formulare le giuste domande piuttosto che dare scontate risposte, perché le domande permettono di allargare la complessità delle questioni. E il mantenere aperta la domanda sulla pittura, sulla sua possibilità o meno di rappresentare oggi il mondo è quanto fanno i pittori o, più in generale, gli artisti. Rispetto a tutta la modernità che si è costruita sulle negazioni e le cancellazioni di quanto riconosciuto precedentemente, il tempo presente sembra invece poggiare su quel terreno molle e scivoloso che è tipico della fragilità e dell’instabilità.  Mi piace pensare che la pittura sia nata in una grotta e che queste siano pitture parietali in cui si fa largo un sedimento d’immagini che si ancorano al telaio, avvinghiandosi come se fosse l’unico posto dove andare.” La spontaneità delle sensazioni come sorgente, il dipinto come struttura reticolare per catturarle. “Ci sono due modi per superare la figurazione (cioè, insieme, l’illustrativo e il narrativo): in direzione della forma astratta, oppure verso la Figura, Cézanne la chiama molto semplicemente: la sensazione”. Così Deleuze sottolinea quanto sfuggente sia l’oggetto che tentiamo di analizzare, tanto inafferrabile da poter esser figurato letteralmente con una parola francese particolarmente suggestiva: sensation. Catturare sensazioni è un’attività particolare, che richiede uno strumento arcaico, la ‘pittura di una volta’. Semplicemente il fare di una volta. Buona visione….

Angelo Minisci

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