Anziani e malattia: il tema del distacco in età avanzata
La malattia e la morte fanno parte del ciclo della vita: ogni essere vivente sa che il proprio percorso non potrà che concludersi con l’epilogo più triste. Pur essendo la fine scontata – a maggior ragione in età avanzata –, non è e non potrà mai essere indolore. Il distacco è comunque un evento traumatico e per varie ragioni. Al di là dell’evento in sé della perdita di una persona cara, per il quale non si è mai preparati, c’è la consapevolezza che con la dipartita di un genitore, un nonno, uno zio, è una parte della nostra stessa esistenza che si chiude: ciò che ci lega a quelle persone è ben più che un fatto di sangue; la nostra infanzia, la nostra giovinezza, tanti eventi della nostra stessa vita sono inevitabilmente legati a quelle persone. Con la loro assenza si chiude definitivamente una fase. Con quei mattoni fabbricati a chiusura del loculo è come se si chiudesse definitivamente una stagione, generalmente la più lieta, della nostra vita. L’ultimo mattone sancisce un distacco definitivo, che, paradossalmente, diventa più cocente mana mano che il dolore acuto lascia il posto a una riflessione pacata. Le modalità del distacco incidono, ovviamente, sul tipo di metabolizzazione: la fine lenta e logorante ci lascia non solo il tempo di prepararci ma anche quello di considerare la morte come la fine di uno stato di sofferenza. La morte improvvisa è più cocente perché ci porta via in un momento quelle persone, senza il tempo di un saluto, di una parola di chiarimento. Insomma ci lascia impietriti e attoniti. Il distacco, comunque lo si analizzi, non potrà che lasciarci più poveri e rendere le nostre vite più tristi. Che fare allora? Anzitutto, non sprecare il tempo, vivere ogni giorno come una serie infinita di occasioni per parlarsi, per dare attenzione, affetto, amore. Solo così potremmo dare un senso ai nostri giorni e, contemporaneamente, non ritrovarci, dopo, a rammaricarci per ciò che non siamo stati in grado di dare quando eravamo nelle condizioni di farlo.
Una saggia e dolce signora di nostra conoscenza, si rammaricava del fatto di non vedere l’unico figlio, per una serie infinta di ragioni, alcune plausibili, altre – dal suo punto di vista e non solo – assai meno. Costretta su una sedia, veniva accudita da vicini e da una badante che, a un prezzo modico e più che onesto, si prendeva cura della persona e della casa. Anche se circondata dall’affetto di un intero vicinato, le mancava la presenza di colui che più di tutti avrebbe voluto vedere. “Verranno a piangermi dopo morta, ma io non potrò sentire né vedere”. E così realmente avvenne. Avvisati nottetempo della scomparsa, i familiari si recarono al capezzale, piangendo e imprecando. Tutto come previsto. Tutto tristemente noto e penosamente inutile. Eppure in quelle lacrime, siamo convinti, c’era qualcosa di autentico, fatto emergere dalla constatazione di non avere più tempo, di avere definitivamente perso ogni occasione di contatto. E’ questo che ci fa abbandonare alla disperazione, il fatto di non potere più porre rimedio. Il continuo rinviare di occasioni è dato dal non prendere seriamente in considerazione che il nostro tempo non è infinito, al pari delle occasioni che la vita ci offre. Non sprecarle è un dovere, verso noi stessi e, assai più, verso chi ci ha voluto bene.
Massimo Conocchia