Gioacchino Murat e Nicola Misasi

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Di Giacchino Murat si parla poco, anzi è dimenticato dai più.

In epoca risorgimentale si avversava e non se ne parlava, perché si paventava la rivendicazione del regno da parte del figlio Luciano. Si era costituito il partito murattista e coniata una moneta con l’effige del suddetto, con la scritta Lucien Murat roi de Naples (Luciano Murat re di Napoli).

Ora, però, sarebbe giusto parlare di Gioacchino e del suo proclama di Rimini, ma si ignorano e l’uno e l’altro.

Uno scritto raro, ma che nemmeno gli studiosi del periodo storico hanno preso in esame, a quanto mi risulta è Il dramma di Pizzo di Nicola Misasi. È vero che l’anzidetto è un romanziere, e non dimentica di esserlo nemmeno nello scritto citato, ma è anche vero che si basa su fonti, che l’autore assicura siano storicamente fondate. Nel II capitolo: Lo sbarco, infatti, si legge in nota:

Da un manoscritto tuttora inedito di un tal Condoleo, dalle memorie del Canonico Masdea, confessore del Murat, e da alcuni più che ottantenni cittadini del Pizzo, testimoni oculari, raccolsi i particolari di questa narrazione, ignorati dal Colletta e dagli altri storici.

E dichiaro, una volta per sempre, che stimmatizzando con acri parole la plebe del Pizzo, non ho inteso portare ingiuria a quella nobile cittadinanza a nessuna seconda per patriottismo, per ingegno e per cortesia, e che ha mai sempre deplorato il miserando eccidio, consumato dalla plebaglia, feroce in ogni paese”.

La prima domanda che ci viene da porre è: – Qualcuno ha rintracciato lo scritto, all’epoca inedito, del Condoleo? -. E ancora: – Sono state pubblicate le memorie del canonico Masdea, confessore di Murat? -.

È inutile dire che questi due documenti sono di estrema importanza per ricostruire, con testimonianze dirette, quanto avvenne nella miseranda fine di Giocchino.

Egli inseguìto per essere catturato e sfuggendo alla sassaiola e ai colpi di fucile: “Con la man destra, dice il manoscritto dal quale attingo questi particolari, teneva un fazzoletto bianco che sventolava, e con la sinistra il cappello, coi quali parea stornasse le palle, non mentendo cosi alla sua fama di Achille invulnerabile”.

L’ex re catturato fu rinchiuso in una torre del castello di Pizzo, con una finestrella dalla quale si vede il mare.

Vi sono stato e, forse, conoscendo la reclusione di tanto uomo, vi assicuro che mi si è stretto il cuore.

Uno spagnolo, D. Francesco Alcalà, si prodigò per rendergli meno pesante la prigionia.

Ognuno conosce la fine dell’ex re di Napoli. La salma fu portata nella chiesa di S. Giorgio.

Misasi ribadisce: “Tutto ciò che ho scritto mi fu narrato da testimoni oculari, o lessi nelle memorie del tempo. Ho taciuto qualche particolare che mi è parso di poca importanza o non provato abbastanza, e più che una dilettevole e colorita opera d’arte, ho voluto scrivere una semplice, una fedele narrazione storica”.

Ecco perché lo scritto, opera di un narratore, assume importanza storica, ovviamente da verificare.

Sulla morte di Giacchino Murat si coniò il detto: “Giacchin’ ha fatt’ ‘a leggia e Giacchinu restò ‘mpisu” (Gioacchino ha emanato la legge e vi è rimasto impigliato lui stesso).

Altra volta me ne sono occupato evidenziando che la legge, nella quale restò impigliato era quella in cui si dice che, per norme igieniche, chi sbarcava nel regno dovesse sottoporsi alle relative visite mediche.

Ad Acri i borbonici, appresa la notizia della morte dell’ex re, andarono a cantare sotto le finestre del palazzo del capitano d’artiglieria Giuseppe Ferrari (che aveva militato nelle file dell’esercito italiano nella campagna di Russia del 1812), nel rione Castello:

Mina lu vientu e trongudìa cerasa,

Giacchin’ è mùortu e Friddinànnu trasi;

mina lu vientu e trocculia castagni,

Giacchin’è muortu e Friddinannu magna.

S’inscenò, inoltre, il rogo sul quale si arse un pupazzo in divisa napoleonica.

Giuseppe Abbruzzo

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