Un turpe “vizietto” tra aneddoti e realtà

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Un vizio turpe, terribile, inaccettabile affligge i nostri giorni: la tangente.

Le cronache dei nostri giorni ce la presentano, perché se ne sventano per la solerzia dalle Forze dell’ordine. Si deve registrare, purtroppo, che non sono i miseri a mettere in atto il turpe “vizietto”, ma eccellenze, che pure non vivacchiano nella povertà, ma navigano in “lidi tranquilli”.

Ne scriviamo, perché alcuni l’attribuiscono ai Borbone, per denigrarli, ma le tangenti dell’epoca borbonica impallidiscono difronte a quelle dei nostri giorni.

Ne scriviamo, perché l’aneddotica riguardante Ferdinando II di Borbone è ricca e simpatica per quanto di vero e d’inventato gli si attribuisce. I “savoiardi” ne tirarono fuori diversi di questi aneddoti veri e inventati di sana pianta. Il cinema ne ha dato qualche saggio simpatico e esilarate.

A proposito di tangenti c’è qualcosa che trova riscontro in quello che diceva un piccolo imprenditore. Questi sosteneva che per avere il mandato della trance dei lavori da lui eseguiti si recava in un ufficio pubblico. “Ma la battilografa (dattilografa) non batteva sulla macchina da scrivere se non ungevi!”.

Questo sosteneva il suddetto, ma, come diceva un’anziana donna, che da noi intervistata raccontava di qualcosa di poco edificante: “Ma, noi non lo sappiamo!”. Come a dire: lo dicono, ma noi non ne sappiamo nulla! Non giuriamo sulla veridicità della cosa!

Ed ecco la storiella su Ferdinando II.

Si dice che un giorno si presentò a lui un impiegato di un ufficio dei lavori pubblici, chiedendogli un aumento dello stipendio di fame, che non bastava per sostenere la famiglia alquanto numerosa.

E, sì, a quei tempi, gli stipendi erano di fame! Ma adesso questo è solo un ricordo!…

Il re, dopo averlo ascoltato, gli chiese se firmasse. La risposta fu affermativa. La “sentenza” di Ferdinando fu: “E, tu non firmare”.

Cosa aveva voluto dire il re? Questo fu il problema, che afflisse l’impiegato per qualche tempo; poi capì.

A chi si presentò, perché firmasse, trovò cavilli e pretesti. Quegli, capita l’antifona, sganciò il suttamùssu, come dice il nostro popolo, ossia la mancia.

Al passaggio del re, ricordandosi di quel consiglio, l’impiegato faceva inchini, scappellate e cenni di saluto.

Un giorno Ferdinando vide che quell’impiegato non viaggiava più a piedi, ma in carrozza. Capì a cosa fosse dovuto.

Dopo qualche tempo lo fermò e gli intimò: “Ora firma se no ti mando a Nisida!”.

Nisida, precisiamo, era un famoso carcere dell’epoca.

La denigrazione di re Nasone fa sorridere, ma è eloquente.

“Questo si faceva sotto i Borbone!”, dicono in tanti. Sì, ma sotto i Savoia cosa si fece? Si perpetuò il “vizietto”.

E con la Repubblica, possibile che vi siano tantissimi, come dicono le cronache, che vengono pescati con le mani nel sacco?

L’attività delle nostre Forze dell’Ordine è encomiabile, ma come mai il “vizietto” continua e prende non chi muore di fame ed ha famiglia numerosa, come quello della storiella, ma tanti eccellenti?

Abbiamo scherzato un po’ sul “pittoresco” Ferdinando II di Borbone, ma… fate voi Lettori, che io ho detto la mia.

Giuseppe Abbruzzo

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