Cura e guarigione: due termini non sempre collimanti

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Oggi più che mai bisogna interrogarsi sul significato dei termini cura e guarigione. Maggiormente dopo la terribile esperienza della pandemia, che stiamo ancora vivendo, bisogna  interrogarsi sul senso dell’operare e del prendersi cura delle persone e su come questi processi si siano evoluti o involuti a seconda dei punti di vista. La potestà di curare è uno dei cardini dell’azione medica e il fine è rappresentato dalla guarigione. In una società che invecchia e nella quale le patologie croniche la fanno da padrone, la cura non infrequentemente non conduce alla guarigione. Che senso ha allora l’azione medica? In senso lato, non è solo il medico a curare. Il “curato” si chiama così perché “cura” le anime. Il medico dovrebbe cercare di curare il fisico, anche se una pura concezione meccanicistica della medicina non sempre è foriera di buoni risultati. Spesso la psiche è coinvolta in alcune patologie e non tenerne conto può essere fortemente fuorviante.

In sintesi, di fronte a patologie croniche, la guarigione non sempre rappresenta, purtroppo, l’obiettivo per il medico; bisogna allora ripiegare sulla cura in senso più estensivo, ossia garantire se non la libertà dal male, sicuramente un alleggerimento della sofferenza che miri a una qualità di vita decente. Alcune patologie come quelle neoplastiche o cardiovascolari (penso ad alcune forme di tumore che, grazie ai progressi della chemioterapia, garantiscono una lunga sopravvivenza o allo scompenso cardiaco cronico idiopatico) non portano alla guarigione ma, oggi più di ieri, con i progressi della farmacologia specifica e della biotecnologia, garantiscono lunghe sopravvivenze e una qualità di vita decente. Per lo scompenso cronico, oggi, le prospettive di cura sono notevoli con farmaci e device innovativi, che in qualche caso portano a un notevole recupero funzionale e a una qualità di vita insperabile rispetto a qualche decennio fa. Se non si guarisce, insomma, si riesce a far vivere decentemente il paziente, e non è poco. Compito del medico, dunque, non è solo quello di guarire ma, in subordine, la cura deve mirare a migliorare la vita del paziente e alleviare le sofferenze. Nei casi estremi, dove la cura non ha più effetto, la palliazione ha il grande significato di ridurre il più possibile dolore e sofferenza. Quando tutto è perso, il diritto a una fine dignitosa deve, a nostro personalissimo modo di vedere, rientrare tra i compiti di chi si è assunto l’onere di curare. Il discorso ci porterebbe lontanissimi rispetto al nostro intento iniziale e avrebbe delle implicazioni etiche e religiose e ci addentrerebbe in un campo paludoso che ci confonderebbe. Nostra intenzione, in questa sede, è ribadire l’importanza della cura, anche quando questa non può portare, come a volte  accade, purtroppo, alla “restitutio ad integrum”. Il processo di cura, nella presente stagione, si è dovuto necessariamente adattare all’emergenza in atto, perdendo parte del suo corollario, pur importante, e divenendo sempre più essenziale. I tempi risicati, le maggiori energie assorbite dall’emergenza sanitaria pandemica hanno reso più precario e povero il potenziale di cura, riducendolo, necessariamente, alla garanzia di processi minimali e salvavita. Bisogna recuperare una dimensione più estensiva della cura che metta il medico e il paziente in condizioni, il primo, di esplicare maggiormente il potenziale della sua azione (occupandosi anche di aspetti che l’emergenza ha costretto a mettere meno in rilievo) e il secondo di sentirsi maggiormente accudito e preso in carico non solo nella sua malattia ma nella globalità (anche psichica) della sua condizione di malato cronico. Riprendere, insomma, a vedere non la malattia ma il malato nella sua globalità.  Il noto aforisma “Primum vivere, deinde philosophare” va bene per la medicina di emergenza ma non può assolutamente essere assurto come paradigma nell’attività quotidiana di chi deve curare. Perché tutto questo ritorni ad essere la regola, bisogna che la politica faccia la sua parte, garantendo un sistema sanitario rimpinguato delle sue energie umane, oggi ridotte al lumicino, e rafforzato nella sua dimensione strutturale e infrastrutturale.

Massimo Conocchia

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