Lo strano caso del sig. “G”, sordo per sopravvivere  

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“C’era una volta un re…”. Così, pressappoco, iniziano le fiabe. Quella che ci accingiamo a raccontare non è una fiaba ma, con essa, condivide un aspetto romanzato, necessario per il rispetto della riservatezza di ognuno.

Era una domenica di una trentina di anni fa, una di quelle assonnate giornate festive primaverili nelle quali il risveglio della natura contrasta con il fisico che stenta ad adattarsi ai nuovi orari e ritmi. Il turno di guardia medica stava per terminare, quando, dalla centrale del 118 – che allora smistava le chiamate, filtrando quelle che non abbisognavano di vista –, ci viene girata una chiamata di un signore che lamentava forte cefalea e ronzii alle orecchie (tecnicamente “acufeni”) e ci chiedeva di visitarlo. Rammaricato per un intervento al fotofinish, quando già pregustavamo colazione con bombolone caldo e giornata libera, usciamo e ci rechiamo in visita. All’arrivo troviamo il signore a letto che si teneva la testa e una donna risoluta sulla cinquantina, robusta, che si rivolgeva al coniuge con voce perentoria. Tutto lasciava intendere una dinamica familiare nella quale c’era una che disponeva e l’altro che si adattava o subiva. Dopo la visita, prescriviamo un antalgico e un farmaco sostanzialmente placebo (per gli acufeni non esisteva un farmaco specifico), consigliando, qualora il disturbo fosse persistito, di recarsi al P.S. per ulteriori accertamenti, tar cui una tac encefalo. Il quadro appariva, tuttavia, alquanto strano: il paziente sembrava lamentare dolore dappertutto e questo faceva un po’ vacillare le nostre ancora non solide certezze, legate a un’esperienza di qualche mese dopo la laurea. Mentre stavamo per uscire, il paziente ci chiede ancora un attimo, chiedendo alla moglie di uscire, in quanto doveva esporre una questione delicata e provava pudore. Rimasti soli, l’uomo ci chiese di aprire un attimo la porta per accertarci che non ci fosse nessuno ad ascoltarci. Rassicurato dalla nostra ispezione repentina, cominciò a esporci il vero motivo della chiamata, di fronte al quale il nostro atteggiamento fu sospeso tra lo stupore e l’ammirazione. Stupore e rabbia per la pantomima, peraltro riuscitissima; ammirazione per un numero eseguito magistralmente, degno del migliore tra gli attori melodrammatici.

Erano venti anni che l’uomo si fingeva sordo; si era persino munito di un paio di occhiali che avevano inserito tra le asticelle un apparecchio acustico, che si guardava bene dall’attivare. La sordità, ostentata con orgoglio, gli aveva permesso di sopravvivere e convivere con una donna difficile. “Tutte le volte che blatera, io, essendo dichiaratamente sordo, mi estraneo, lasciandola ai suoi soliloqui e questo ci permette di evitare discussioni inutili e consente a me di ritrovare una pace che avevo perduta”. Non c’era rabbia nelle sue parole, solo rammarico per avere perso uno strumento vitale. La moglie, sospettando che l’uomo fingesse, qualche mattina prima della mia visita, gli si accostò da dietro lasciando cadere a terra tre piatti. A quell’inaspettato fragore, il marito, tra l’altro assorto nella lettura, sobbalzò dalla sedia, di fatto manifestando l’assoluta integrità del suo apparato uditivo. A quel punto si sentiva spacciato. Non poteva assolutamente dichiararsi improvvisamente guarito, mettendo, tra l’atro, a rischio il rapporto con una persona che si sarebbe sentita ingannata da decenni. Nonostante il carattere forte e sovrastante della donna, l’uomo ne era innamorato e quell’espediente rappresentava un compromesso e un salvagente, per ovvi motivi. Esposto il problema, l’uomo ci implorò di uscire e dichiarare espressamente alla moglie che dall’esame dell’orecchio si evidenziava una timpanosclerosi (la membrana del timpano divenuta rigida e poco funzionale). Non ce la sentimmo di mentire, ma neanche di distruggere uno strumento salvavita per quel marito. Ci limitammo, di fronte alla domanda specifica della donna circa la finta sordità del marito, che non eravamo degli specialisti ma che, in certe situazioni, poteva accadere  che, di fronte a forti rumori improvvisi, il soggetto potesse essere in grado di percepirli (come, ad esempio, il rumore fragoroso dei piatti lasciati intenzionalmente cadere) ma, nella generalità dei casi, per le frequenze abituali, un soggetto affetto da ipoacusia, senza entrare nel merito, poteva restare sostanzialmente sordo. Fummo così in grado di salvare la nostra dignità professionale, non mentendo circa la condizione specifica, e, al tempo stesso, non mettere l’uomo in una situazione difficile. La donna ci guardò con diffidenza, chiedendoci, tra l’altro, l’oggetto della confessione del marito. Ci appellammo al segreto professionale, invitandola a chiederlo al marito. Ciò che ci premeva sottolineare era che, di fatto, l’episodio dei piatti, di per sé, non dimostrava che l’uomo fingesse di non sentire (cosa, peraltro, verosimile). Ancora oggi, a distanza di oltre trent’anni, ripensiamo spesso a quell’anziano paziente, a come, in certe situazioni, l’istinto di sopravvivenza prevalga su altri aspetti, pure importanti. Ripensiamo a come una presunta menomazione possa, in certi casi, rivelarsi salutare. C’era una tristezza di fondo in quella situazione, ma anche amore; un tentativo – estremo, se si vuole – di conciliare amore e sopportazione di una condizione difficile da vivere quotidianamente senza un ausilio. Chi sa per quanto ancora l’uomo sarebbe riuscito ad avvalersi di quella situazione costruita con maestria e messa in crisi dall’espediente della moglie. Non ci è dato sapere, non avendo avuto più notizie. In cuor nostro, però, da un punto di vista prettamente umano, abbiamo sempre fatto il tifo per lui e la sua “cosiddetta” sordità salvifica.

Massimo Conocchia

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