Il papavero fiore sacro a Venere

Bata - Via Roma - Acri

Il papavero – secondo Pausania – era posto in mano della statua di Venere scolpita da Canaco Sicionio. L’autore citato riporta, infatti, che lo scultore raffigurò Venere seduta e in una mano “papaver… tenet corint” (l. II, cap. X). Perché quel fiore era sacro alla dea?

Secondo Porfirio, citato in Eusebio, i papaveri “magna fecunditatis symbula sunt” (sono simboli di grande fecondità); e, ancora: “urbis enim symbolum papaver est”. Da questo, forse, derivò l’uso, presso gli antichi, d’incoronare con ghirlande di papaveri gli sposi.

Altri, però, vi riscontrano un diverso significato. Il papavero, essendo, presso Greci e Latini, pianta ornamentale dei loro giardini era, per la bellezza, sacro a Venere, che ne era la dea. A sostegno della loro tesi, evidenziano che i poeti dei popoli citati ne fanno ripetutamente l’elogio. Per citarne solo qualcuno, evidenziamo che Properzio lo fa nell’ultima elegia del libro I (v. 37); Ovidio, nel descrivere la morte di Giacinto (Metamorfosi, X, v. 162); Teocrito fa offrire, dal Ciclope, a Galatea un mazzo di fiori, unendo ai papaveri i gigli.

Un vaticinio, pervenuto fino a noi ragazzi d’altri tempi, era quello d’interrogare il fato dal rumore della foglia del papavero. Ecco come si procedeva: staccato un petalo si poneva sull’indice e il pollice, posti a cerchio e tenuti, opportunamente larghi, nella mano chiusa. Con l’altra mano si dava un colpo sul petalo che vi si era appoggiato: il rumore più o meno secco dava il responso all’interrogativo tenuto segreto. Suida descrive tutto ciò perfettamente e riporta dell’interrogazione se l’amato/a amasse l’amato/a “ex hoc autem platagonio, pollici et digito indici, imposito, et percusso, conjiciebant (amantes) an ab amansiis amarentur”.

Il papavero, inoltre, era dato, dagli antichi, come bevanda. Ovidio lo riporta, facendolo sorbire a Vulcano, in occasione delle sue nozze. E, in occasione delle nozze si dava a bere ai commensali estratto di papavero mescolato a latte e miele. Quest’ultimo, però, era il papaveraccio, dal quale si estrae l’oppio detto, nel dialetto acritano, papògna. La Sibilla, che guidava Enea negli inferi, addormentò il terribile custode con una focaccia a base di miele e papavero. A conclusione riportiamo un raro sonetto dell’abate Gaetano Golt, romano, poeta arcade, col nome di Euridalco Corinteo. Pubblicò i suoi veri fra il 1752 e il 1795.

Il Papavero

   Alla vergin gentil cosa dirai

tu papavero pigro, e sonnacchioso,

che ti sei mossa ma non giungi mai,

e ti lagni ch’io turbi il tuo riposo!

   Tu i saggi detti concepir non sai,

e taciturno vieni, e neghittoso,

pur ella a te sta rivolgendo i rai,

né si convien che sii muto, e ritroso.

   Intorno alla donzella sussurrando

Stava bramosa l’assemblea fiorita

d’intender come rispondesse, e quando.

   Alfine a quella gente in gruppo unita

il papavero disse sbadigliando:

  • Tutta un sogno mi par l’umana vita.

Attenzione, però, che non sia la ragione a prender sonno, ché, allora, si generano i mostri.

Giuseppe Abbruzzo

Bata - Via Roma - Acri

Potrebbero interessarti anche...

Lascia un commento

Questo sito usa Akismet per ridurre lo spam. Scopri come i tuoi dati vengono elaborati.

error: Contenuto protetto!