Alucci Alì: rinnegato o perseguitato?

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Di Alucci Alì se ne scrive come di un rinnegato che, abiurata la fede cristiana, abbracciò quella musulmana e combatté i suoi ex confratelli. Dimenticano, però, costoro lo svolgersi dei fatti che lo portarono a tanto.

Pietro Cicala, ricordiamo, era stato condannato a morte dal tribunale dell’inquisizione cosentino insieme a Marco Berardi, noto come re Marcone, perché seguaci di Valdo. I due, però, riuscirono a evadere dalla prigione e mentre quest’ultimo decise di combattere gli spagnoli, ritenuti invasori del regno di Napoli e fondare la Repubblica calabrese, Cicala preferì di combattere i sedicenti cristiani, che lo avevano condannato a morte, abbracciando la religione musulmana.

Ognuno darà il giudizio che vuole, ma bisogna essere consapevoli di come si svolsero i fatti, per poterlo fare in modo sereno e non di parte.

Abbiamo rintracciato un articolo sul personaggio da attribuire a un non meglio identificato F. G. e datato settembre 1846.

Il suddetto autore ricorda la partecipazione attiva di “Ulucci-Alì” alla battaglia di Lepanto che, come si ricorderà, fu vinta dai cristiani contro i turchi.

Cediamo al citato F. G., trascrivendo fedelmente, errori compresi:

«Quando il Barbarossa nelle sue escursioni infestava i mari della Sicilia, tutto mandando a sacco e facendo prigione ogni abitante di quel paese, imbattutosi in questo giovane pastore, lo fe suo prigioniero, e seco via il condusse quale schiavo. Egli però mal sopportando la catena ed il remo, rinnegata la fede de’ padri suoi prendeva il nome turchesco di Ulucci-Alì.

Arruolatosi nel servizio della milizia turca marittima, ivi dié prove di cotanta destrezza, sagacità e di sommo valore che pervenne successivamente ai primi gradi, e fu tenuto in conto d’uno dei più prodi nell’arte marinaresca, nell’esperienza delle armi, nell’ardire degli assalti e nell’artifizio della guerra.

Per lui Costantinopoli, la Morea e Negroponto deposero lo spavento che loro aveva imposto la forza delle armi della lega, e tanta fu la saggezza e perizia di Ulucci-Alì in fare la guerra che l’isola di Cerri, Capo Metapane, Modone, Navarino, Corone, e Tunisi ricorderan sempre il nome suo; in ricompensa di che il Gran Signore de’ Turchi lo creava Dey (re) dei tre regni di Algeri, Tunisi e Tripoli.

Ma se in questo eroe Calabrese tutta Italia ammirerà sempre il coraggio e l’alto senno in battaglia il sommo guerriero, gli sarà pur d’uopo altresì detestare il vile che per tentare la sorte e cambiar stato abbandonava la fede dei padri suoi, la religione in che apriva gli occhi alla luce e rinnegando il Cristianesimo si facea mussulmano. Monarchi e pontefici gli offersero inutilmente feudi e ricchezze, titoli e onori, onde Ulucci-Alì ritornasse cristiano. Tanto poté in lui l’ostinatezza che volle offuscata la gloria acquistatasi di Italiano valoroso nelle armi, coll’esecrando nome di rinnegato; ed ei morì fatto segno all’onta dell’universale, non che di colei che gli aveva dato per due volte la vita, e col portarlo nel suo ventre e coll’alimentarlo dell’umor del suo seno. E quando Ulucci-Alì si fece a chiamare l’autrice dei suoi giorni onde farla ricca di tesori, e presentandole superbi arredi le diceva “non convenire quello stato sì misero alla madre di un bascià dei Turchi, di un genero di Selim, e di un re di tre corone” la generosa vecchia dando di calcio a quei ricchi donativi esclamava: “Io ben mi considero nella mia povertà più ricca per la fede di Cristo, ch’io professo, di quel che tu siei con tutti gli erari del Turco. Io non ti riconosco per figlio a meno che tu non ritorni in grembo di tua vera religione che con tanta infamia del nome tuo, del tuo sangue e di tua nazione hai rinnegata. Non essendo tu figlio della Fede Cristiana, io non sono ne posso ne voglio esser tua madre. Vanne pure maledetto per sempre da Dio e da me. Ulucci-Ali n arrossiva, ma continuava a rimanersi nell’errore sino al 1600 in che esalava in Costantinopoli l’estremo respiro».

Questo si diceva di Pietro Cicala, bassà Cicala o Alucci-Alì che dir si voglia.

L’articolista, preso dal delirio, lo dice pastore e non è vero; non ricorda, o non sa o vuole ignorare volutamente, che il suddetto non era cristiano ma valdese. Dimentica o ignora, inoltre, che proprio i cristiani, per quella sua fede religiosa l’avevano condannato a morte.

Allora è d’uopo ripetere la domanda, lasciando a ognuno la conclusione: Pietro Cicala era un traditore o una vittima del fanatismo del Tribunale dell’Inquisizione?

Giuseppe Abbruzzo

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