Le tasse postunitarie

Un liberale rivoluzionario toscano faceva la seguente riflessione nel 1864:  «”Il popolo, il vero popolo italiano non ha preso parte diretta al nostro movimento… Il popolo ci ha lasciato fare, benché con qualche dispetto, poiché amava le sue antiche consuetudini, ed il prete gliele faceva creder sacre: ma noi gli abbiamo detto che ci lasciasse fare e starebbe meglio”.

Ecco cosa avvenne: “Eh il popolo, a cui venne promesso meglio, ha avuto peggio; imposte gravissime di ogni natura, violenze alla sua indole e alle sue consuetudini, offese alle sue credenze… Il governo ed il Parlamento italiano avrebbero sempre dovuto avere in mente che essi erano fatti e messi là pel popolo italiano. Invece noi siamo rimasti un partito diviso in fazioni, un partito anche poco numeroso, relativamente; il popolo, e specialmente il rurale, è rimasto estraneo al movimento e non ne ha sentito che i danni”. Amara confessione!

Realizzata l’Unità una montagna di tasse cadde sugli Italiani. A soffrirne maggiormente furono i meno abbienti. Si ebbero: imposta fondiaria, tassa di registro e bollo, mano morta, ricchezza mobile ecc. Si tassò tutto e non mancò il dazio consumo.

Salvatore Scervini, poeta dialettale acritano, compone versi simpaticissimi. Un misero popolano è chiamato dall’ufficiale delle imposte, perché, morta la moglie, non aveva fatto la “successione”. Lei aveva portato in dote poche cose e una caldaia di rame. Il vedovo non aveva fatto, a tempo debito, la dichiarazione e fu multato. Poco dopo gli morì l’asino e andò dall’agente delle imposte dichiarandolo. Quello se ne meraviglia. L’altro: – Ho capito, ma la parte dove la vuoi, alla coscia o ad altra parte?.

Lo jus della parte era di medievale memoria. La satira è interessante non poco sotto l’aspetto storico. Il nuovo regno si dimostrava di gran lunga peggiore del precedente.

Tanti sono i canti popolari a riguardo. Luigi Martire riporta ne riporta due:

Cuvernu nuovu latru e cammurrista

Chi de tassi ne ‘ncuoddri e de pisuni

Ohi chi potissi perdari la vista

chine ne parra mali re Burbuni,

chiru cuvernu armenu avia ricchizze

e nu’ scurciava ‘a gente povareddra

chi potia fatigari ‘ncuntentizza

senza pagare ‘e tassi e ra cabbreddra.

Continua il canto disperato, per essere caduti dalla padella nella brace:

Ne scìppanu lu pani de li manu

Lu pane nuostru e nua de cchiù languimu,

cà ne trattanu pieju de li cani

e pagamu puru l’acqua chi vivimu,

ca cica simu stati libbarati

e ne sentimu sempre cchiù chiagati.

Non sfugge tutto questo al can. Gaetano Barracco che, in un canto recitato all’Accademia Cosentina il 1863, dice:               Chine se cuffa, ca nun vorra pisi,

chi de pisi ne vorra carricare;

ca tene truoppu sidda de turnisi,

chi a mancu, e a dietru vorra ficilare,

e pe ste rughe nu vesparu sientu:

se fa giustizia pe chin’è chiù lientu.

Sono lontani i momenti in cui il giovane innamorato partiva volontario e portava i sospiri di un popolo oppresso a don Giuseppi, ‘u generali, che avrebbe liberato le popolazioni dai “brutti”, ossia dai tiranni.

I “brutti” Gattopardi rimasero, anzi sul “nuovo signore rimase l’antico riciclato” e nulla mutò, solo le tasse che aumentarono a dismisura.

Giuseppe Abbruzzo

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